L’insistenza sulla predicazione, in Bergoglio, va di pari passo con l’esercizio della caritàdi Enrico Cattaneo, sj*
Nel dibattito creatosi intorno alla pubblicazione della lettera di Mario Palmaro e della risposta di Riccardo Cascioli (8 gennaio), è stato toccato il nodo della concezione della morale in papa Francesco. Su questo tema interviene padre Enrico Cattaneo, precisando il valore di alcune affermazioni fatte.
A proposito di papa Francesco, spesso si sottolinea la sua provenienza dall’ordine dei gesuiti. Certamente la spiritualità di S. Ignazio di Loyola, loro fondatore, ha impregnato la personalità di papa Bergoglio, soprattutto con i famosi “Esercizi spirituali”, che ogni gesuita fa per un mese intero all’inizio e alla fine della sua formazione. Non sempre però questo richiamo è fatto correttamente, come se i gesuiti fossero maestri di relativismo morale.
S. Ignazio distingue molto bene il fine e i mezzi, e sa che il fine di ogni azione apostolica è la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Ma questo non significa che i mezzi siano indifferenti o che basti la bontà del fine per rendere buoni anche i mezzi. La ricerca del fine va sempre fatta all’interno della vita morale e non contro di essa. Infatti nel "Principio e fondamento" degli Esercizi, S. Ignazio vuole portare l’esercitante alla "indifferenza" quanto ai mezzi, ma solo per «tutto quello che è lasciato al nostro libero arbitrio e non gli è proibito» [5], come ad esempio la scelta dello stato di vita religioso o coniugale. Non riguarda quindi i comandamenti e la legge morale, che non sono lasciati al nostro libero arbitrio.
Del resto, anche il voto di obbedienza, così fortemente sottolineato da S. Ignazio come “obbedienza cieca”, non significa che il superiore possa comandare qualsiasi cosa; se infatti ordina una cosa che è chiaramente peccato, c’è l’obbligo in coscienza di non obbedire. Se non ci fosse questo controllo della ragione (illuminata dalla fede), non saremmo più protetti dalle mistificazioni e dai fanatismi religiosi.
Per la morale, vale quello che il concilio Vaticano I ha detto della conoscenza naturale di Dio: chiunque abbia l’uso della ragione può arrivarvi; però di fatto, nello stato attuale di natura decaduta, ci si arriva con fatica e non senza mescolarvi molti errori. La rivelazione dà un potente aiuto per potervi arrivare con facilità e senza errore. Così è per la legge morale, che è impressa nella coscienza insieme alla ragione. Tutti possiamo riconoscerla, anche se poi non riusciamo a metterla in pratica. Come diceva il poeta pagano Ovidio, video bona, proboque, deteriora sequor (“Vedo il bene e lo approvo, ma seguo il male”).
Ogni giorno i giornali ci fanno ripassare i comandamenti: non rubare, non uccidere, non dire falsa testimonianza, onora il padre e la madre. La rivelazione ci conferma questa morale naturale, e oltre alla sua certezza, ci dà anche la forza per osservarla (grazia). Inoltre la rivelazione, poiché pone l’uomo davanti a Dio e non semplicemente davanti agli altri, ha quella completezza alla quale l’uomo tenta di sfuggire, identificando il male morale con il male sociale.
Nelle nostre società moderne occidentalizzate, alcuni comandamenti non sono più visti come un male sociale e quindi la loro trasgressione è tollerata, se non favorita: così l’adulterio, il divorzio, l’aborto… e la strada è aperta verso altre trasgressioni. I cattolici impegnati nel servizio della città (politica) non possono certo far valere le motivazioni morali per imporre i comandamenti, ma devono impegnarsi a mostrare i gravi danni sociali che derivano dalla loro non osservanza. Sono i fatti, non le teorie, che danno ragione alla morale cattolica, e la daranno sempre di più. E per questo non bisogna avere paura di insegnarla, con tutta la dolcezza e la fermezza possibili. L’impegno politico, con le sue battaglie civili, spetta ai laici; l’insegnamento spetta ai pastori.
Alcuni si sono meravigliati che Papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium si sia soffermato così a lungo sull’importanza della predicazione, che è il precipuo compito dei pastori, assieme ai sacramenti (nn. 135-175). Prima di lui solo un altro papa aveva trattato così diffusamente questo tema, e fu il papa Gregorio Magno (590-604). C’è una frase di questo grande pontefice che illustra molto bene tutto l’atteggiamento preso oggi da papa Francesco: «Chi non ha carità verso il prossimo, non deve in alcun modo assumere il ministero della predicazione» (Omelie sui Vangeli, 17,1).
Tutto deve partire dalla carità, che è la ricerca del bene spirituale delle persone (salvezza delle anime). Ma la carità, dice papa Gregorio parlando ai vescovi, non deve essere «confusa con l’indolenza» (ib., 12). Perciò «dobbiamo stare vicini a quelli che correggiamo e correggere anche quelli che ci sono vicini, perché se manca una delle due componenti, l’azione sacerdotale sarà difettosa o nello zelo o nella mitezza» (ivi).
La responsabilità del pastore è enorme. Pregate per noi, chiede il papa, «affinché la nostra lingua non impigrisca nell’esortare, e non avvenga che dopo aver assunto il compito della predicazione, il nostro silenzio ci condanni presso il giusto Giudice» (ib., 3). Con le lacrime agli occhi – il papa sta parlando in Laterano, davanti ai vescovi, nella quaresima del 591 – egli esclama: «Le anime a noi affidate abbandonano la fede, e noi stiamo in silenzio? Giacciono nell’iniquità, e noi non tendiamo la mano per correggere? Si macchiano ogni giorno di molte colpe, e noi assistiamo inerti al loro tendere verso l’inferno?» (ib., 14). Sono parole che fanno tremare le vene e i polsi.
Gesù aveva detto agli apostoli: “Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13). Papa Gregorio commenta questo detto con una immagine tratta dalla pastorizia: «Spesso vediamo che viene posta di fronte agli animali la pietra del sale, perché essi possano lambirla e trarne giovamento. Il sacerdote deve essere tra la gente come questa pietra del sale. Egli deve aver cura di ciò che occorre dire ai singoli e di come ammonire ognuno, in modo che chi lo accosta, come a contatto con il sale, porti in sé il sapore della vita eterna» (ib., 9).
Papa Francesco vuole partire dal “cuore del Vangelo”, che è «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (Evangelii gaudium 36, corsivo nel testo). Egli vuole dei cristiani “convertiti”, che abbiano fatto cioè l’esperienza dell’amore di Dio, «effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito che ci è stato dato» (Rm 5,5).
È un fatto constatabile su larga scala che in questi “convertiti” si risveglia quasi automaticamente la coscienza morale, ed essi corrono con gioia a confessarsi. Hanno il maestro interiore che li istruisce, lo Spirito Santo, il quale usa lo stesso linguaggio del magistero della Chiesa, ragion per cui chi prima bestemmiava, ora non bestemmia più, chi rubava, non ruba più, chi imbrogliava, non imbroglia più; chi conduceva una vita sessuale disordinata, trova la forza per vivere nella castità secondo il suo stato; chi trovava normale abortire o praticare l’aborto prende coscienza dell’orribile delitto che ha compiuto; chi sta per rompere un matrimonio, trova la via della riconciliazione; chi covava inimicizie o risentimenti, sente che la grazia di Dio lo libera; chi si dava al gioco d’azzardo, chi consultava i maghi o gli spiriti occulti, ora si affida alla Provvidenza, trova il gusto della preghiera e non vive più come se Dio non ci fosse, ma lo vede presente in ogni cosa e in ogni persona.
*Gesuita, ordinario di Patrologia e Teologia fondamentale alla Facoltà di Teologia dell'Italia meridionale (sez. San Luigi), membro del Comitato scientifico di "Rassegna di Teologia".