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La difficile quotidianità di un cristiano in Egitto

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Aiuto alla Chiesa che Soffre - pubblicato il 13/01/14
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“Ogni giorno esci di casa senza sapere cosa ti succederà”, dice Girgis, un egiziano cattolico di Helwan
“Ogni giorno usciamo di casa senza sapere cosa succederà”, ha affermato Girgis, un cattolico egiziano di Helwan, una cittadina a sud del Cairo, che preferisce non usare il suo vero nome. “Ma questo è lo stile cristiano, prendere le cose giorno per giorno”, ha aggiunto.

Girgis descrive la sua routine, come andare al lavoro, tornare a casa, andare in chiesa, far visita ai propri familiari, ma evitando per quanto possibile le interazioni sociali. Molti cristiani tendono sempre più a isolarsi, ha spiegato, anche se visto che è un uomo può avere meno problemi. Per sua moglie Maria (anche questo è un nome di fantasia), infatti, le cose sono molto più difficili. In Egitto le donne cristiane, soprattutto nei quartieri delle classi più basse come quello in cui vivono lei e la sua famiglia, spiccano perché non hanno la testa velata, il che le distingue dalla grande maggioranza delle donne musulmane.

Madre di una bambina di tre anni e di un bimbo di uno, Maria afferma che quel quartiere modesto nel sobborgo del Cairo è tutto ciò che si possono permettere. La fiducia nei trasporti pubblici fa parte dello stile di vita della famiglia. Minivan sgangherati su cui si stipano come sardine fino a 12 passeggeri li portano in giro in città per l’equivalente di 15 centesimi di dollaro. “L’altro giorno stavo salendo sull’autobus con i miei due figli come al solito”, ha raccontato Maria, “e ho detto il nome del mio quartiere solo per confermare il tragitto. Il conducente, però, ha detto che non andava lì e quindi ho dovuto scendere per cercare la vettura giusta”. “Una donna musulmana, però, è salita e ha chiesto dello stesso quartiere, e il conducente l’ha fatta entrare e occupare l’ultimo posto. Io ero indignata e mi sono lamentata, ma l’uomo ha risposto: ‘Io sono libero di far entrare chi voglio e di obbligare a scendere chi voglio’”.

Lo scorso anno, incidenti di questo tipo sono avvenuti una mezza dozzina di volte. Non è un fatto quotidiano, ma lascia una ferita dolorosa, soprattutto quando si ripete con regolarità. “Stavo camminando con mia figlia, portando mio figlio in braccio, in una giornata estiva molto calda”, ha proseguito Maria. “Ho chiesto a un negoziante di vendermi un ombrello per ripararmi, ma lui ha detto che non ne aveva. ‘Certo che li ha’, ho detto indicandoglieli, pensando che non li aveva visti. E lui mi ha risposto freddamente: ‘Sì, ma a te non li vendo’”. Questa ostilità e flagrante discriminazione non sono universali. Maria lavora in un quartiere della classe media, non molto lontano da casa, dove dice di essere trattata con più rispetto.

A livello nazionale, leader musulmani e cristiani si salutano e i politici promuovono l’idea dell’unità nazionale, ma per Girgis questi gesti sono in larga misura superficiali. “La tolleranza e l’accettazione dell’altro si stanno perdendo”, ha dichiarato. “I libri e i sermoni che parlano di questi concetti non arrivano alla gente comune nei quartieri delle classi più basse”.
Dalla rivoluzione si è notata una diminuzione dell’urbanità, a suo avviso non collegata a questioni religiose, ma l’aumento della religiosità tra molti musulmani ha portato a sottolineare gli elementi di divisione della loro fede.

“Parlo della mia esperienza, è ovvio”, ha osservato Girgis. “Ci sono cose dell’islam che sono contro i cristiani. Non dobbiamo ingannare noi stessi, è quello che dice il Corano”. “Per questo, se un musulmano vuole essere amichevole può trovare dei versetti che si accordano a questa idea, e se vuole essere contro i cristiani può trovare versetti anche per questo. Il problema è come vengono educate le persone e ciò che viene insegnato loro”.

Maria, che lavora in un asilo, concorda. “Le parti del Corano che fanno imparare a memoria ai bambini tendono ad essere quelle che portano la gente a odiare gli altri”, ha affermato, aggiungendo che “non vengono scelti i passi che sottolineano la preghiera, o i versetti che dicono che l’altro può essere diverso, che ha la propria religione e tu hai la tua”.

Anche le moschee locali contribuiscono alla cultura della discriminazione. Tutti i venerdì, i sermoni vengono diffusi nel vicinato attraverso altoparlanti collocati quasi a ogni angolo delle strade. “Il linguaggio religioso è cambiato: ‘Odiate questa persona, non è uno di voi, non unitevi”, ha proseguito Girgis. “A volte ci chiamano anche infedeli, affermando che non crediamo in Dio. Ma come si può entrare nel cuore di una persona per sapere se è credente o meno?”

Maria si prepara ai problemi ogni giorno prima di uscire da casa. “Mi aspetto sempre che succeda qualcosa. Se non è nei trasporti pubblici sarà al mercato, e se non è al mercato sarà all’asilo”. “Io cerco di essere cristiana”, ha detto. “Cerco di essere gentile, ma cerco anche di mostrare alle persone che quel comportamento non è appropriato”. Spesso non fa molta differenza. I testimoni dei suoi maltrattamenti in genere minimizzano l’accaduto, dicendole che va bene o che non se ne deve preoccupare.

Maria ha buoni rapporti con i musulmani del suo palazzo, e ha anche insegnato gratuitamente francese al figlio di un vicino, senza chiedere nulla alla famiglia. Come famiglia, tuttavia, hanno pochissimi veri amici musulmani.
In Egitto, ha commentato Girgis, nei confronti dei cristiani “ci sono due tipi di persecuzione: fisica, quando sono minacciati di morte, e mentale, che è peggiore”. “Se ti uccidono è finita, ma se subisci dei maltrattamenti possono portarti a ucciderti. Ci fanno sentire inferiori. Questa è la persecuzione presente in Egitto”.

Traduzione dall’originale di Roberta Sciamplicotti
 

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