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Lo spirito del soldato e i generali sconfitti del ‘doverfaresimo’

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Terre D'America - pubblicato il 08/01/14
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Lo stile gergale di Papa Francesco rende anche le encicliche più fruibilidi Jorge Milia

L’Evangelii Gaudium è piena di sorprese. Quelli che conoscevamo papa Bergoglio da prima sapevamo già che ce ne sarebbero state di prevedibili e – altre – di imprevedibili.

Non sono un lettore veloce, anzi, di solito mi prendo il mio tempo; i suoi scritti li voglio leggere e rileggere con calma. Così, quando mi è arrivata la telefonata di un amico chiedendomi se avessi finito di leggere l’esortazione apostolica gli ho risposto a metà strada fra bugia e verità:

– Lo sto facendo.
– Bene, mi ha detto lui con tono allusivo, al punto 96 ha scritto qualcosa per te.
Ho pensato ad uno scherzo e sono stato al gioco:
– Ma ti pare! Cosa avrà scritto mai!
– Un bergoglismo!
– Quale?
– L’habriaqueísmo, ha scritto proprio così, ha-bria-que-ísmo, tradotto alla lettera: il “doverfaresimo”.

Ho tirato un sospiro di sollievo: quel “qualcosa” che doveva essere “per me” non implicava una mia responsabilità diretta. I bergoglismi di questi mesi mi hanno messo addosso il timore di combinare qualche problema. Rassicurato non ho però potuto fare a meno di esclamare:

– Tutta una dottrina! Decisamente quest’uomo ha intenzione di rivoluzionare la storia.
– Del mondo?
– Del mondo sicuramente; quello che preoccupa me è la storia delle parole incrociate: prima o poi dovranno pure incominciare a includere queste nuove parole!

Il corrispondente all’altro capo del telefono ha detto che ero definitivamente fuori di testa e ha chiuso la chiamata.
Non è la prima volta che me lo dicono. So passarci sopra. Ho cercato il quaderno e sono andato a leggermi direttamente il punto 96 dell’Evangelii Gaudium saltando a pie pari i numeri precedenti:

«In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”. Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “doverfaresimo” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele».

Fuori dagli scherzi (telefonici) ho sperimentato una volta ancora la stessa reazione (succede che quando leggo un suo testo mi sembra di ascoltarlo parlare): Quando ho letto e riletto quella frase su “coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere” ho avuto una fitta al cuore.

Questa frase, ho pensato, può venire soltanto da un gesuita. Un Ignazio di Loyola che abbandona la gloria delle armi per quella di armi diverse. Semplici soldati, fanteria di un esercito che continua a lottare senza preoccuparsi per il risultato della battaglia, perché la gloria si da per scontata quando si lotta nell’esercito di Dio.

Mi è venuto in mente il giovanissimo sacerdote gesuita Jorge Bergoglio, dirigendo una ignota opera teatrale di un altro gesuita -Juan Marzal- sulla vita di Sant’Ignazio. Più giovani ancora, due dei suoi allievi, Rogelio Pfirter e il sottoscritto, giocando nel ruolo di Ignazio di Loyola il primo e di un ufficiale facinoroso -compagno di scorribande del Capitano d’Artiglieria ormai convertito- il secondo. Ci dissero che i ruoli erano stati distribuiti secondo il physique du rol di ognuno. La ringrazio Padre Bergoglio per avermi assegnato quello.

La mia parte non era troppo lunga. Dovevo dire a un Sant’Ignazio ormai sanato delle sue ferite:

-Torna in guerra/come un cavaliere! – perché il mio personaggio non voleva perdere l’amico.

E lui, l’amico, spiegava con tono di riconciliazione:

-Non abbandono le armi/fosse indegno!/Io le scambio/invece di spada/una croce che non uccide il nemico/bensì gli da la vita…

Ho sempre avuto presente quel “Non abbandono le armi” associato alla fede, alla militanza e alla battaglia permanente.
Mi sono soffermato su questa immagine perché il bergoglismo di questa puntata parla dell’altra faccia della medaglia. Ci sono “vite consumate nel servizio” e ci sono vite che si consumano teorizzando quello che bisognerebbe fare. L’ismodel dover fare. Per questi ultimi papa Francesco ha innaugurato un nuovo peccato, altro che abolirlo: il “doverfaresimo”.

Col senno di poi, è proprio vero che da molto tempo e in tanti, dalla comodità dei propri uffici, teorizzano quello che non hanno il coraggio di portare avanti. Perché è difficile, perché sono stanchi, perché hanno tanto altro da fare. Sono i “gerarchi” che hanno perso contatto con le sofferenze del popolo. Ma un generale che scorda che è fondamentalmente soldato e che si preoccupa solo del successo della battaglia, è già sconfitto. Forse perché dimentica che, se ci accompagna la Fede, la speranza della vittoria non è riposta nel risultato del combattimento né tantomeno nella vanità del riconoscimento mondano del successo, ma nell’incontro con Dio.

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