Le prospettive di evoluzione della normativa all’indomani della sentenza della Corte europea dei diritti umani sul caso dei coniugi italiani Cusan e FazzoAi genitori deve essere riconosciuto il diritto di dare ai figli il solo cognome materno. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi negando loro l'autorizzazione ad attribuire alla figlia il cognome della madre invece di quello del padre. Nella sentenza, che diverrà definitiva tra 3 mesi, i giudici europei sottolineano il dovere per l'Italia di “adottare riforme legislative o di altra natura” per rimediare alla violazione riscontrata. E' necessario, quindi, ragionare sulla possibile evoluzione della normativa in materia.
A fare ricorso a Strasburgo sono stati i coniugi milanesi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, cui lo Stato italiano ha impedito di registrare all'anagrafe la figlia Maddalena, nata il 26 aprile 1999, con il cognome materno anziché quello paterno. La coppia si è battuta per vedersi riconosciuto questo diritto e per consentire alla prole di perpetuare il patrimonio morale del nonno materno, deceduto, e che secondo la coppia era un filantropo, del quale sarebbe rimasta cancellata la memoria perché il fratello della signora non ha eredi (La Repubblica 7 gennaio).
Nel frattempo sono nati altri due figli e tutti e tre attualmente hanno anche il cognome della donna, in base a un’autorizzazione concessa per via amministrativa. Secondo la signora Cusan si tratta però “di una specie di cortesia che viene fatta: non è la stessa cosa del poter scegliere di usare il cognome materno” (Il Fatto quotidiano 7 gennaio).
I giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per avere violato il diritto di non discriminazione tra i coniugi in congiunzione con quello al rispetto della vita familiare e privata. In particolare, i giudici sostengono che “se la regola che stabilisce che ai figli legittimi sia attribuito il cognome del padre può rivelarsi necessaria nella pratica, e non è necessariamente una violazione della convenzione europea dei diritti umani, l’inesistenza di una deroga a questa regola nel momento dell’iscrizione all’anagrafe di un nuovo nato è eccessivamente rigida e discriminatoria verso le donne”. Nella sentenza i giudici sottolineano anche che la possibilità introdotta nel 2000 di aggiungere al nome paterno quello materno non è sufficiente a garantire l’eguaglianza tra i coniugi e che quindi le autorità italiane dovranno cambiare la legge o le pratiche interne per mettere fine alla violazione riscontrata (Il Fatto quotidiano 7 gennaio).
La sentenza della Corte di Strasburgo non costituisce un vincolo giuridico per lo Stato, ma, come spiega il costituzionalista Emanuele Rossi, docente alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa, ha piuttosto “un valore di tipo politico, un invito affinché la legge venga adeguata a quanto sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti per l'Uomo”. La sentenza, inoltre, garantisce alla coppia solo un risarcimento ma non l'effettiva attribuzione del cognome materno al bambino (Rainews 7 gennaio).
Secondo Andrea Nicolussi, docente di diritto civile all’Università Cattolica di Milano, ciò su cui ci si deve interrogare, all’indomani della sentenza della Corte è in che direzione sarà modificata eventualmente la legge. E' in gioco, secondo, Nicolussi “il senso e la funzione del cognome”. Le alternative sono due: “far rifluire anche la questione del cognome all’interno di una concezione familiare tutta incentrata sui diritti soggettivi degli adulti, che diventano indisponibili, oppure sottolineare la funzione del cognome mettendo al centro l’identità del figlio, il rapporto della persona con il legame familiare, con l’appartenenza alla propria famiglia”. Nel pronunciamento di Strasburgo, in altre parole, “non è tanto in questione la predominanza del cognome del padre o della madre – anzi, la sentenza da un lato rende giustizia alla madre, riconoscendo la sua titolarità alla pari del padre – ma una concezione di famiglia”. È chiaro che “la famiglia patriarcale, intesa in senso esclusivo ed escludente, è per fortuna ormai tramontata, a favore di una maggiore sensibilità per l’uguaglianza e la pari dignità dei coniugi, ma ciò non significa che si possa e si debba ridurre la famiglia ad un mero affare privatistico. Quello di cui abbiamo bisogno è una famiglia non più patriarcale ma neo-istituzionale: una famiglia, cioè, che riconosca e valorizzi ancora la dimensione istituzionale – neo, non vetero – senza far degenerare la stessa struttura familiare in un contesto di individui che rivaleggiano e confliggono fra di loro” (Agenzia Sir 8 gennaio).