Il teologo risponde sulla liceità di questo trattamentoVolevo sapere cosa ne pensa la Chiesa dell’amniocentesi, una forma di diagnosi prenatale che viene proposta in casi particolari alle donne in gravidanza per accertare possibili malattie o malformazioni nel nascituro. Non rischia di essere un modo per spingere verso l’aborto?
Elena Paoli
Risponde padre Maurizio Faggioni, docente di Teologia morale
La amniocentesi è una delle più diffuse tecniche di diagnosi prenatale alle quali si ricorre per controllare l’andamento della gravidanza e lo stato di salute del nascituro. Alcune tecniche sono non invasive (es. triplo test ed ecografia) altre sono invasive (es. amniocentesi e villocentesi). La amniocentesi si esegue di solito fra l 15° e la 18° settimana di gravidanza e consiste nella introduzione in utero, sotto guida ecografica, di un ago e nel prelievo di un campione del liquido in cui è immerso il feto (liquido amniotico). Nel liquido amniotico prelevato si trovano moltissime cellule di desquamazione del feto e così è possibile fare ricerche su di esse per individuare eventuali patologie. L’indicazione più comune per l’esecuzione del test è un’età della madre superiore a 35 anni perché con l’aumento dell’età della madre aumenta il rischio di avere un bambino Down. Altre patologie diagnosticabili con questa tecnica sono la fibrosi cistica, la distrofia muscolare di Duchenne, la sindrome della X fragile. L’esame può essere causa di aborto spontaneo in una percentuale che si aggira intorno all’1% in dipendenza dell’abilità di chi lo esegue l’esame stesso.
In linea di principio l’amniocentesi, in quanto procedura diagnostica, è lecita perché è un esame destinato a darci informazioni sullo stato di salute del feto. L’Istruzione Donum vitae del 1987 e l’enciclica Evangelium vitae (testo integrale) del 1995 contengono un insegnamento molto lineare su tutto l’insieme delle tecniche di diagnosi prenatale: «quando sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre – si scrive -,e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite» (Evangelium vitae, n. 63).
Giustamente, la lettrice chiede chiarimenti perché, di fatto, l’amniocentesi, come altre tecniche di diagnosi prenatale, invece che essere diretta a promuovere la salute del nascituro, sta assumendo sempre più il carattere di una ricerca sistematica dei bambini imperfetti allo scopo di sopprimerli. Lo strumento diagnostico dovrebbe essere un prolungamento e un potenziamento dello sguardo attento e premuroso della madre e dell’occhio benevolente del medico, ma sta diventando invece un occhio che invade il corpo della donna e che spia impietoso il nascituro. È vero che la scoperta di una patologia nel bambino non obbliga di per sé ad abortire, ma – in base ad un recente studio francese – risulta che nella sindrome di Down o la trisomia 21 viene abortito il 96% dei bambini affetti, nella sindrome di Turner il 100% (bambine con cariotipo X0) o nella sindrome di Klinefelter il 73% (bambini con cariotipo XXY).
Il fatto è che l’amniocentesi, come altri strumenti offerti dalla medicina, venga ad essere usata in un contesto culturale segnato da uno strisciante eugenismo per cui le vite di qualità non corrispondente agli standard vengono ritenute di minor valore o addirittura si ritiene più ragionevole sopprimerle.
Un secondo problema, di natura scientifica, è la grande discrepanza fra le nostre capacità diagnostiche e le possibilità di intervento. Nel caso della sindrome di Down, per esempio, non ci sono per il momento terapie specifiche. Alcuni moralisti, allora, hanno sostenuto che non ha senso praticare indagini mirate a diagnosticare patologie per le quali non esistono terapie. L’argomento ha una sua logica, ma nella realtà quotidiana noi ci troviamo spesso di fronte a donne in angoscia, anche perché sottoposte ad un bombardamento di informazioni spesso allarmistiche sui possibili danni dei loro bambini. Può dunque essere giustificata una amniocentesi anche se è mirata soltanto a tranquillizzare una donna in grave ansia o, in caso di diagnosi di patologia, se la aiuta ad accogliere la situazione, soprattutto se sostenuta da adeguato counselling.