Crescono gli investimenti in droni e soldati robot che trasformeranno in un videogioco i futuri scenari di guerraIl disarmo mondiale è almeno per ora una chimera. Tanto più alla luce delle nuove tecnologie grazie alle quali è possibile utilizzare droni e soldati robot al posto di uomini. Dunque da un lato risparmiamo vite umane, dall’altro producono business e allontano un equilibrio di pace nel mondo.
Si può sintetizzare così il pensiero del professore Fabrizio Battistelli, presidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, che Aleteia ha intervistato in occasione della Giornata Mondiale della Pace.
Le guerre del futuro si faranno con tecnologie sempre più avanzate. Quindi, sembrerebbe che non c’è una tendenza verso il disarmo, ma piuttosto un investimento di soldi e risorse per la corsa a diventare lo Stato militarmente più rispettato?
«E’ difficile purtroppo prevedere allo stato attuale un processo di vero disarmo che svuoti gli arsenali come nell’invito biblico. Piuttosto siamo di fronte ad una ristrutturazione degli stessi. La tendenza attuale, ciò che interessa i governi occidentali e la superpotenza Usa è risparmiare vite umane nei conflitti».
Si spieghi.
«Nell’opinione pubblica, è sempre più difficile gestire la notizia del lutto provocato dai caduti in guerra. Le classi politiche dei paesi che compiono interventi militari sono molto attente a minimizzare le perdite nel corso dei combattimenti. Questo è l’unico “risparmio”, un “risparmio” in termini di immagine. Al contempo si sono intensificate ricerche e sperimentazione per evitare morti in battaglia, senza tuttavia garantire che non ci siano morti sulla scena del combattimento. A cominciare dalle vittime innocenti costituite dai danni collaterali».
A proposito di danni collaterali. Spesso si è sentito parlare di attacchi in guerra compiuti da aerei senza piloti, i droni. Una tecnologia avanzata al punto da non garantire vittime innocenti?
«I droni sono il classico esempio della nuova strategia a cui facevo riferimento. Il fatto di essere aerei senza pilota, manovrabili a distanza di migliaia di chilometri da centri di comando come quelli Nato o Usa, agevola tempi e modalità di attacco. Questa tecnologia ha il vantaggio di minimizzare il rischio per un pilota di essere abbattuto dai colpi della contraerea. Ma nonostante la pretesa precisione “chirurgica”, non può garantire che l’individuazione di un bersaglio non si presti ad errore, ad esempio che un gruppo di parenti e amici che festeggia un matrimonio venga scambiato per un assembramento di guerriglieri. I danni collaterali sono destinati ad aumentare. Le tecnologie perfette che annullano l’errore umano sono un’illusione».
I droni possono essere considerati una tecnologia a larga scala? Quali sono i paesi che la stanno sviluppando con maggiori investimenti?
«La tecnologia dei droni è destinata a diffondersi sia nei paesi industrializzati, sia in paesi intermedi come l’Iran. Attualmente ricerca e produzione di droni sono particolarmente alimentate negli Stati Uniti, ma anche in paesi Nato come Francia e Gran Bretagna. Anche l’Italia sta investendo su ricerca e applicazioni per velivoli teleguidati. Poi non bisogna dimenticare altre potenze di primo piano come Russia e Cina, oltre a paesi particolarmente delicati per il contesto geostrategico quali Israele, Pakistan e India».
Oltre ai droni, le ricerche si stanno intensificando anche sul perfezionamento di soldati robot. Insieme agli aerei senza pilota, riducono il rischio di perdere soldati “umani” durante un conflitto. Tra l’altro da una guerra tecnologica ne trarrebbero beneficio anche le aziende belliche impegnate nella sperimentazione.
«Le dico subito che i soldati robot sono un drammatico passo verso il precipizio. Guerrieri non più in carne ed ossa, da utilizzare sul terreno. I famosi scarponi non sarebbero più rivestiti da membra umane, ma da vere e proprie macchine da guerra, che però creano un serio problema etico e giuridico».
Quale?
«Quello delle macchine che possono uccidere gli uomini. Pertanto sta nascendo una mobilitazione internazionale per prevenire un’applicazione di automi combattenti. In questa storia del soldato robot, lo dico senza pregiudizi, ci vedo molto del sogno americano, cioè sposare la tecnologia con il mercato. Intanto c’è la ricorrente utopia: scienza e tecnica possono risolvere i problemi dell’umanità. È un atteggiamento positivista della cultura americana con conseguenze che possono essere buone, meno buone e pessime. Già ai tempi della guerra in Vietnam il generale Westmoreland aveva iniziato a promuovere l’automazione del campo di battaglia. Dunque, un’idea antica che oggi si sposa con le esigenze di mercato attraverso la ricerca di sistemi d’arma sempre più sofisticati. Un investimento remunerativo perché accresce la domanda interna in termini macroeconomici e assicura profitti astronomici per le aziende del settore bellico, oltre a trainare le esportazioni di armamenti più tradizionali verso l’estero. La guerra tecnologica è allettante perché è un modo per creare enormi profitti e sviluppare tecnologie avanzatissime»
Insomma c’è poco da illudersi. Gli investimenti si moltiplicheranno da qui ai prossimi anni anche per un’esigenza di mercato?
«La direzione è quella. Rispetto ad un’analisi scientifica, appare ingenua la posizione di chi auspica una semplice riconversione dell’industria bellica sull’assunto che le stesse risorse potrebbero essere destinate a potenziare un lungo elenco di beni e servizi per migliorare la qualità della vita dei cittadini di uno Stato. La spesa militare ha una composizione molto avanzata e la ricerca nella produzione bellica mette in moto fattori che non si possono sottovalutare. Cento dollari spesi in ricerca per i droni hanno ricadute tecnologiche e finanziarie molto più complesse rispetto a 100 dollari investiti per l’istruzione o per risolvere il problema della casa o di altri beni sociali».
Intanto il governo italiano per il prossimo anno investirà in spese militari 23,6 miliardi, secondo la legge di stabilità. Questo non è una contraddizione rispetto alla situazione di crisi che vive il nostro Paese?
«Sicuramente. Ma anche da noi, in miniatura rispetto alle grandi potenze, c’è la tendenza alla capitalizzazione e alla tecnologizzazione della spesa militare. I grandi temi del welfare, come scuola e università, sino alla salute e al sostegno dell’occupazione sarebbero priorità socialmente ben più urgenti».
Che opinione ha dell’impegno del papa per la pace nel mondo?
«Si tratta di un messaggio evangelico e rivoluzionario allo stesso tempo. Intanto perché si colloca in un contesto di annuncio drasticamente innovativo. Non fa riferimento alla pace come messaggio retorico, ma è collocato dentro quello che sembra essere un disegno, una visione, di profondo rinnovamento della Chiesa e del discorso pubblico fatto dalla Chiesa. Ed è innovativo anche nei contenuti in quanto il tema della pace diventa un’alternativa nei confronti del corso d’azione dei governi, spesso orientato nella direzione opposta. Il messaggio ha un carattere profetico che è pienamente credibile. Quella di papa Francesco è una voce dissonante, che chiama nel deserto delle logiche contemporanee. Uno dei dati più innovativi della recente storia mondiale».
[Hanno collaborato Ary Waldir Ramos Díaz e Gelsomino Del Guercio]