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I CIE, luogo simbolo di incomprensione, chiusura ed incapacità

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia Team - pubblicato il 23/12/13
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I casi di questi giorni di Lampedusa e di Ponte Galeria sono i sintomi di una malattia gravissimaI Centri di identificazione ed espulsione (CIE), i centri di permanenza temporanea di un tempo, sono strutture previste dalla legge italiana per accogliere i cittadini di altri paesi che giungono irregolarmente sul nostro territorio. La durata massima “prevista” del soggiorno al loro interno è di 18 mesi, entro i quali, nel rispetto delle condizioni sanitarie minime, deve essere stabilito ed eseguito “il destino”, molto spesso di reimpatrio, della persona immigrata. Ma l’attualità di questi giorni ci parla di una realtà diversa. Il caso del CIE di Lampedusa, dove gli “ospiti” sono stati sottoposti ad un trattamento sanitario brutale, e quello di Ponte Galeria, dove è in atto una protesta da parte di una decina di persone che, per creare attenzione sulle loro critiche condizioni di vita e soprattutto sui tempi lunghissimi della burocrazia che li trattiene lì, hanno scelto di cucirsi, letteralmente, la bocca. Una tale gestione del fenomeno dell’immigrazione, distratta e pachidermica, quando non inumana, è solo un’altra delle mille facce della crisi politica, sociale e morale del nostro Paese. Volevamo capire di più, noi di Aleteia, su quale sia la situazione attuale all’interno dei CIE e su quali siano le urgenze in tema di immigrazione. Per questo abbiamo raggiunto Foad Aodi, medico palestinese che presiede l’Associazione dei Medici di Origine straniera in Italia (AMSI) e la Comunità del Mondo Arabo in Italia (COMAI), e che ha fondato il Movimento Internazionale Transculturale ed Interprofessionale “Uniti per Unire”, e l’avvocato Mario Pavone, presidente dell’Associazione Nazionale per l’Immigrazione in Italia, che riunisce più di cinquecento professionisti dediti all’assistenza giuridica degli immigrati ed allo studio dei problemi giuridici e socio-economici derivanti legati all’integrazione.

Quali sono le urgenze che i casi di questi giorni evidenziano?

Aodi: Noi da anni come AMSI, che curiamo tantissimi profughi in arrivo dal Nord Africa, e COMAI chiediamo tre cose: di modificare la legge Bossi-Fini, compresa la situazione dei CIE; di intensificare la stipula di accordi bilaterali coi nostri paesi d’origine perché questo è l’anello che è ancora scoperto; e infine, promuovere l’integrazione di professionisti di origine straniera in Italia. Queste sono tre cose fondamentali, per le quali dalla politica stanno arrivando pochissime risposte. Noi siamo molto dispiaciuti per quello che sta accadendo, dall’episodio dei tanti morti avvenuto il 3 ottobre ai casi dei CIE. Bisogna mettere mano ad un progetto d’immigrazione programmatico, non improvvisato, che coinvolga tutte le comunità e le associazioni di origine straniera. Ci sono tre problematiche molto importanti, che mi dicono i nostri mediatori operanti nei CIE e nelle carceri, che vanno risolti immediatamente, prima che la situazione diventi esplosiva: uno, accelerare i tempi burocratici di amministrazione; due, intensificare la collaborazione con le ambasciate e i consolati perché le risposte spesso sono tardive; da ultimo, ridurre i tempi di permanenza nei CIE garantendo la tutela dei diritti umani e del diritto alla salute. Se non si mette mano a queste tre cose la protesta proseguirà e, da quello che ci dicono, la situazione è preoccupante.

Quello che è successo a Lampedusa e a Roma sono la norma o l’eccezione?

Aodi: E’ la normalità. Ma adesso la situazione sta diventando esplosiva perché non si è capito in tempo – questo l’ho sempre ripetuto, in tutti i miei interventi pubblici – quali erano i cambiamenti in atto nei nostri paesi d’origine, nei paesi arabi. Ci si doveva organizzare diversamente e prima per quanto riguardo le politiche di immigrazione: sono arrivati in tantissimi e l’Italia si è trovata da sola, senza l’aiuto dell’Europa. E con l’aumento della permanenza nei CIE i cittadini o profughi siriani, palestinesi e di altri paesi sentono crescere la loro depressione, il loro nervosismo e la protesta. E’ una catena che è partita perché non si è saputo prevedere questo massiccio arrivo di cittadini dai paesi arabi. D’altra parte, la politica italiana in questi anni si è occupata solo di problematiche interne: purtroppo anche con il ministro Kyenge, che noi abbiamo difeso dal primo giorno anche perché è nostra collega, si sono create tante aspettative che alla fine non hanno prodotto nulla. Sappiamo che è un ministero simbolico, certo, ma c’è una delusione enorme nelle comunità arabe perché non ne è uscito niente.

Com’è composta la “popolazione” dei CIE? Ci sono anche molti professionisti che sono rinchiusi lì dentro?

Aodi: Sì, ci sono tanti diplomati e tanti laureati. Agli sportelli online di AMSI e di COMAI ci arrivano continuamente segnalazioni e richieste d’aiuto per far riconoscere qui i titoli di studio. Sono arrivati anche parecchi medici ed infermieri dall’Egitto negli ultimi due anni, anche medici siriani, fisioterapisti, ingegneri. Purtroppo qui vengono definiti spesso con un termine solo, “clandestini”. Invece va vista la persona, l’uomo: noi da anni chiediamo un’immigrazione programmata per garantire anche lo stesso immigrato che arriva qua. Bisogna combattere l’immigrazione clandestina, certo, ma anche per contrastare il mercato dello sfruttamento degli esseri umani: sappiamo di maltrattamenti, di violenze sulle donne, ecc. Nella confusione generale noi ci dimentichiamo che si tratta di esseri umani e di laureati che bussano alla porta dell’Europa perché sono in difficoltà.

Gli immigrati che finiscono nell’ingranaggio dei CIE percepiscono una differenza tra Italia, nel senso di istituzioni, e Italiani in quanto popolo?

Aodi: Sicuramente l’Italia è un paese molto molto amato nei nostri paesi. L’Italia e gli italiani sono stati protagonisti di tanti aiuti umanitari – ne sono testimone diretto come presidente AMSI – e durante le emergenze sanitarie in Libano, in Siria, in Palestina, in Libia, e via dicendo. Non possiamo nasconderci che purtroppo chi ha governato in Italia negli ultimi anni per motivi politici ha fatto qualche legge che profuma di razzismo. Alcune le abbiamo combattute, tipo quella dei medici spie, che voleva costringere noi medici a denunciare gli immigrati senza permessi di soggiorno. Ciò nonostante, l’Italia rimane un paese molto amato. Quando ci rechiamo in missione nei nostri paesi non fanno altro che chiederci di medici e professionisti italiani: ad esempio, abbiamo creato una delegazione italiana di medici AMSI, COMAI insieme ad ASL e siamo andati a Gerusalemme per dare assistenza sanitaria ai pellegrini palestinesi che vanno alla moschea. Sicuramente questo aspetto dell’Italia non viene dimenticato. L’altro aspetto, che secondo me è una svolta storica che va sostenuta con tutte le forze, è quello che sta facendo Papa Francesco. E’ un’apertura concreta verso il mondo arabo e islamico: anche in occasione della veglia di preghiera che su suo invito abbiamo celebrato in Vaticano tutti insieme, musulmani e cristiani, io ho dichiarato che Papa Francesco in poco tempo è diventato un idolo per noi. Lui sta utilizzando un metodo costruttivo per unire tutti quanti, un metodo umano e semplice per dire al mondo che siamo tutti uguali, che non ci sono differenze tra l’uno o l’altro. Questa apertura verso il mondo islamico non c’è mai stata in passato, per questo è molto apprezzata da noi e temiamo possa essere ostacolata dai nemici della pace, dai nemici del dialogo interculturale e interreligioso. Ma noi siamo i primi, come AMSI e COMAI, a cercare di sostenere questa svolta che non deve cadere nel vuoto.

Esiste un diritto che regola il mondo dei CIE?

Pavone: Sì, esiste un diritto consolidato e preciso, previsto dall’articolo 2 della legge sul Testo Unico per l’Immigrazione, laddove si dice che allo straniero sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona. Questi sono previsti dalle norme interne, dalle convenzioni internazionali, dai principi di diritto internazionale. Per cui, non v’è dubbio che gli stessi possono godere di questi diritti che sono soprattutto quelli del rispetto della persona umana, quello fondamentale, che vuol dire un trattamento di umanità all’interno di queste strutture. I CIE, ricordiamo, sono previsti per coloro che sono cittadini “irregolari”, clandestini, che non abbiano il riconoscimento dello Stato al diritto di rimanere sul territorio, ma che hanno diritto a tutto quello che è incluso nelle convenzioni internazionali dei diritti dell’uomo. Per cui trattamenti come quelli di Lampedusa sono da ritenersi assolutamente contrari alle norme di diritto internazionale. E’ contro la legge, quello che è successo. Se vi sono trattamenti sanitari obbligatori come in quel caso, dove certamente c’era l’intenzione di evitare il propagarsi di un’epidemia di scabia con un trattamento preventivo, questi devono sempre tener conto del rispetto dei diritti universali dell’uomo.

E’ la prassi comune che si rimanga lì per più dei canonici 18 mesi?

Pavone: Questo è l’altro tema importante, la permanenza all’interno dei CIE oltre questo termine previsto dalla legge. Ora il governo sembra che vorrebbe ridurlo a 30 giorni evitando l’identificazione, che è un elemento molto importante dal momento che molto spesso questa gente arriva in Italia priva dei documenti di riconoscimento e non se ne conosce la nazionalità. Magari una persona dichiara di essere ghanese e invece è nigeriana. A quel punto si procede all’identificazione: si chiede attraverso il consolato di ricevere un certificato d’identificazione per poterlo mandare nella sua patria d’origine. Ma tutto questo purtroppo è ritardato dalle stesse autorità diplomatiche consolari perché tante volte è arduo per loro accertare la legittima provenienza di questi cittadini stranieri. Io ritengo che sia un problema che va risolto, come dice il governo, anche senza l’identificazione: ma qui rischiamo che questa gente non venga rimandata nel paese d’origine, questa è la verità. Come fa un paese che non è effettivamente quello d’origine a ricevere un cittadino nato altrove? E’ un problema questo che riguarda anche il sistema carcerario, perché anche lì si procede all’identificazione al momento dell’ingresso.

Dunque la norma del rimpatrio previsto dalla Bossi-Fini si vanifica?

Pavone: La legge Bossi-Fini non è che abbia risolto il problema, che è di carattere amministrativo ed è affidato alle autorità legittime diplomatiche e consolari. E tante volte risulta arduo, se non impossibile, accertare l’identità dei soggetti, al di là della permanenza che è prevista in 18 mesi, proprio per favorire i processi di identificazione. Al di là dei 18 mesi, però, siamo contro la legge.

Cosa succede ad un immigrato che arriva con un barcone e chiede diritto d’asilo?

Pavone: Chi chiede diritto di asilo deve andare davanti alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale previste dalla legge per il diritto d’asilo. Ovviamente tutto risulta più semplice quando si conoscono le condizioni del paese di provenienza: cioè, se il paese è sottoposto a eventi bellici o a problemi di carattere economico, o a scontri tribali, culturali, religiosi, che non consentono la permanenza del soggetto all’interno del paese. Quando questo non c’è molto spesso le Commissioni si orientano per negare il diritto d’asilo. E questo crea grossi problemi perché ovviamente ci troviamo ancora a che fare con i CIE e con i problemi che dicevamo prima.

L’Europa ci condanna, giustamente, per il trattamento riservato agli immigrati. Ma cosa succede nei paesi europei?

Pavone: Ho sempre sollevato questo problema, che è quello di una legge uniforme, unica, per tutti i paesi, sia per quanto riguarda il diritto di asilo, sia per quanto riguarda il diritto d’immigrazione. Al momento ogni paese si regola come meglio crede: basti pensare che la Germania, ne cito uno a caso, per concedere il diritto di permanenza sul territorio si regola selezionando operatori qualificati “a domanda”, cioè a dire, se il soggetto ha o meno le caratteristiche richieste dal mercato del lavoro per poter soggiornare in loco. Altri paesi invece sono disponibili a concedere il permesso di soggiorno, come accadeva una volta in Italia, in base al “contratto di soggiorno” del soggetto, quindi solo se aveva un lavoro, una casa, e soprattutto un datore di lavoro che metteva a disposizione tutti i mezzi per poter sopravvivere in Italia. Sicuramente preoccupa i governi l’idea di avere una massa di soggetti in movimento senza casa e senza lavoro. Oggi alcuni paesi si stanno orientando “a domanda”, nel senso che se vi è un’offerta di lavoro specifica per delle categorie precise accolgono solo quelle categorie tagliando fuori tutti gli altri. Quando il nostro ministro degli Interni invoca interventi da parte della comunità europea lo fa proprio perché conosce questa situazione, perché noi abbiamo sì questi due orientamenti – quello generico legato al contratto di soggiorno e quello di accesso secondo la qualifica professionale – ma abbiamo anche una massa di soggetti che arrivano e che è dequalificata e che non ha neppure questa possibilità di inserimento. Tra l’altro in via sperimentale era stata fatta una specie di offerta di lavoro unica sull’intero territorio europeo, che però fino a questo momento ristagna. A questa offerta potevano accedere i camerieri, i saldatori, gli imbianchini, ecc., insomma, una sorta di ufficio unico del lavoro che avrebbe risolto una parte del problema. Poi c’è anche il tema dei ricongiungimenti familiari: come altri governi, anche l’Italia si sta orientando per un restringimento limitando il ricongiungimento a categorie come i genitori che dimostrano di essere indigenti, che possono vivere in Italia con gli stipendi dei propri figli che lavorano qui. Questo orientamento va contro l’attualità, perché il ricongiungimento familiare vuol dire dare una speranza a coloro che sono a casa, come accadde ad esempio ai nostri genitori alla fine della Prima Guerra Mondiale che raggiunsero i loro figli che erano andati a lavorare in Germania.

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