I forconi portano sulla scena pubblica il dramma di una tassazione iniqua, la soluzione è pagare meno, ma pagare tutti, senza eccezionidi Ferdinando Leotta
Con la protesta dei Forconi sono stati portati all’attenzione dell’opinione pubblica i gravi problemi che sta attraversando il mondo dei piccoli commercianti, dei professionisti a basso reddito, degli ambulanti dei mercati, dei «padroncini» di camion e dei tassisti, di alcune categorie di piccoli artigiani. Si tratta, se si adotta la denominazione suggerita dal sociologo Aldo Bonomi, del Quinto Stato, che sostanzialmente si identifica con il popolo delle piccole partite IVA, aggredito dalla pressione fiscale e contributiva che, sommata alla recessione, alla stretta creditizia, agli adempimenti burocratici e alla concorrenza congiunta delle multinazionali dall’alto e degli extracomunitari dal basso, porta all’esasperazione.
La protesta dei Forconi, iniziata alla fine del 2011, è riapparsa in questi ultimi giorni e tra le molte grida, in diverse direzioni levate, distintamente si sono udite quelle rivolte contro il Fisco, tanto che il quotidiano torinese La Stampa, il 6 novembre, intitolava: "Dagli ambulanti di Torino una prova di rivolta fiscale". L’espressione “rivolta fiscale” non è una novità. Da ormai due anni i giornali ci portano notizie di episodi di resistenza ai tributi in Italia e altrove, riferendoci di comportamenti illegali di cittadini normali, ma disperati, e, non di rado, del suicidio di imprenditori.
Se da un lato il popolo delle partite IVA protesta contro l’esosità dei tributi, dall’altro, il popolo dei CUD, condanna fermamente l’evasione fiscale alla quale attribuisce la responsabilità dell’eccessività del prelievo e della stessa rivolta. È questo un segno di divisività sociale che, già esistente, è andata accentuandosi negli ultimi vent’anni: basterebbe andare in internet e digitare “maledetti evasori” su un motore di ricerca per constatare quanto odio di classe fiscale scorra sul web.
In effetti, a un quarto di secolo dal crollo del comunismo, la contrapposizione è soprattutto ideologica. Come ha rilevato il coordinatore del Dipartimento Politiche sociali e welfare della CGIL Nazionale, Beniamino Lapadula, «Dietro alle diverse discussioni che si fanno sul fisco ci sono però, oltre a interessi contrapposti e aspetti pratici, visioni ideologiche e concettuali che riguardano un nesso più profondo: quello tra proprietà, individuo e Stato» (in Il cavaliere e le tasse, 2008). Questo sfondo ideologico rende particolarmente complicato il confronto sulle tematiche fiscali, ma non deve impedire di riflettere sulla “giusta imposta”, che è condizione fondamentale per una riforma fiscale più equa e per la pace sociale. Il livello complessivo del prelievo, infatti, già accresciuto dall’IRAP e ultimamente incrementato dall’imposta sul patrimonio immobiliare (IMU), ha raggiunto, e in certi casi superato, il limite della fiscalità confiscatoria, che si ha quando il tasso impositivo globale è talmente elevato da costringere il contribuente, non bastandovi il reddito disponibile, a mutilare il proprio patrimonio per soddisfare l’obbligazione tributaria.
Ma chi può dire se l’imposta è giusta o ingiusta? Purtroppo l’approccio tipico del positivismo giuridico identifica il giusto con la conformità alla legge. Scriveva in proposito già nel 1945 Luigi Vittorio Berliri: «Economisti e politici si dichiarano concordi nel pensare che della giustizia o ingiustizia dell’imposta debba la loro scienza disinteressarsi, mentre i giuristi vantano da parte loro come l’ultimo progresso dei loro studi l’esser giunti a definire l’imposta come pura e astratta ‘manifestazione della sovranità finanziaria dello Stato’. Ed economisti, politici e giuristi finiscono a concludere, inter se o ex cathedra, che ‘la giusta imposta non esiste’».
Non tutti però hanno abbandonato la cerca della giusta imposta. Ad essa si riferisce la Dottrina Sociale della Chiesa che non detta leggi, tantomeno tributarie, ma propone principi di riflessione, formula criteri di giudizio e offre orientamenti per l’azione. Essa rammenta che la causa impositionis sta nell’«insufficienza della singola creatura umana a soddisfare da sola i propri bisogni materiali e spirituali» e individua nella «convivenza con gli altri e nella comunicazione della conoscenza e dell’amore gli elementi basilari delle società politiche». Sulla base di questa premessa si riconosce allo Stato un diritto naturale d’imposizione fiscale, fondato sui principi a) del bene comune, per cui ogni cittadino ha il dovere di contribuire alla spesa pubblica in misura proporzionale alla sua capacità; b) della destinazione universale dei beni della terra, che esige una redistribuzione dei beni terreni in modo equo e fraterno; c) della solidarietà, per cui ognuno è responsabile del bene integrale di tutti gli altri; a tale responsabilità si ottempera – in parte – mediante i servizi che elargisce lo Stato.
La politica fiscale – si legge ancora nel Dizionario di Dottrina Sociale della Chiesa (2005), curato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – dovrà, quindi, tenere nel debito conto «il diritto dello Stato a riscuotere le tasse; il bisogno di una legge fiscale giusta; l’equità nell’uso dei fondi pubblici e, come corollario, l’obbligo – non soltanto legale, ma anche morale – dei cittadini di pagare le tasse».
Ma «il diritto dello Stato a riscuotere le tasse non è illimitato»; la legge fiscale dovrà anche rispettare l’equità, facendo in modo che il carico fiscale sia distribuito secondo le reali possibilità delle persone e dei gruppi e astenendosi dall’«imporre una pressione fiscale dannosa per le iniziative private o che stimoli l’evasione fiscale». Il rispetto del contribuente da parte dello Stato, infine, comporta che si offra ai contribuenti la «possibilità di contestare le tasse che essi considerano ingiuste».
Tuttavia un criterio quantitativo non basta per valutare la bontà della politica finanziaria, ad esso deve affiancarsi un criterio di scopo. Deve considerarsi «illecito e abusivo l’utilizzo di tali fondi per attività diverse dal bene comune o, ancor peggio, ad esso contrarie, così come per attività contrarie al bene integrale delle persone». Secondo la Dottrina Sociale della Chiesa, la politica finanziaria deve interessarsi particolarmente della famiglia. A tal fine è irrinunciabile una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, senza moltiplicare l’apparato burocratico e senza convertire lo Stato in Stato assistenziale. Così si era già espressa l’enciclica Centesimus annus (1991). La Caritas in veritate (2009), a sua volta , formulando l’innovativo concetto di sussidiarietà fiscale, ha suggerito che siano i contribuenti, sotto il controllo della autorità pubblica, a destinare le loro risorse scegliendo finalità determinate e fruendo di detrazioni e deduzioni.
Una proficua riflessione sulla “giusta imposta” comporta però che, con la cultura dell’evasione, si abbandonino anche le ipocrisie di Stato, che Angelo Panebianco ha ben descritto in un articolo pubblicato suCorriere della Sera Sette dell’ 8 giugno 2012. «Per capire quanto malato sia il rapporto fra le tasse e gli italiani – scriveva Panebianco – basta ricordare una circostanza: negli anni 50, quando avvenne la grande trasformazione che fece dell'Italia una potenza industriale, l'evasione fiscale era generalizzata e massiccia. L'Italia si industrializzò perché gli imprenditori che realizzarono il miracolo italiano erano per lo più evasori. Le tasse erano, infatti, troppo alte; se gli imprenditori avessero davvero pagato non ci sarebbe stato probabilmente alcun boom economico. Allora non si scelse di imporre tasse più basse e di farle davvero pagare; si scelse l’ideologia egualitaria e l’ipocrisia: tasse irragionevolmente alte e tacito assenso all'evasione».
Per un sistema fiscale equo reclamato dai Forconi bisogna ripartire di lì, orientandosi però in altra direzione: Pagare meno, per pagare tutti