Lo studio di padre Claudio Monge, domenicano, da dieci anni a contatto con la cultura islamica a Istanbuldi Matteo Crimella
Il volume si divide in due parti. Nella prima Monge analizza l’ospitalità anzitutto nella tradizione ebraica: in primo luogo il testo biblico nella sua ricchezza e poliedricità, poi la letteratura rabbinica che del testo ispirato è erede e interprete. L’Autore mette bene in luce la tensione fra etnocentrismo e universalità, per distendersi poi a precisare le regole dell’ospitalità codificate nella Torah. L’indagine sulla letteratura profetica e sapienziale fino all’ellenismo mostra momenti molto differenti attraversati dal popolo eletto, che nella sua storia ha conosciuto tendenze addirittura contraddittorie a proposito dell’accoglienza. Molto interessante è la ricostruzione del rituale dell’ospitalità nel mondo ebraico: i preliminari dell’accoglienza, il passaggio della soglia, le abluzioni, il pasto, lo scambio di doni. Monge nota che «in parecchi racconti di accoglienza, l’ospite ricevuto è identificato con un angelo o un messaggero di Dio, quando non con Yahvé stesso» (p. 81). Segue un capitolo sull’accoglienza nel Medio Oriente, inteso come area non solo geografica ma anche culturale, profondamente segnata da tre grandi imperi musulmani (Omayyade, Abbaside e Ottomano). La tenda è il luogo dove si riceve l’amico, l’ospite, il pellegrino, lo straniero. Chi entra sotto la tenda deve onorare il suo proprietario, ma è pure difeso da colui che lo ospita. Il domenicano analizza sia le infrazioni alle regole, come pure il vocabolario coranico dell’ospitalità.
Il terzo capitolo della prima parte è dedicato al mondo cristiano. Dichiara: «La fede nel Dio che si fa uomo in Cristo cambia necessariamente non solo i rapporti tra l’universo divino e umano, ma anche i rapporti degli uomini tra di loro. Ecco perché, ancora più chiaramente che nell’Antico Testamento, è evidente che l’ospitalità non si esprime nella retorica di formule astratte, ma si traduce in atteggiamenti concreti che rivelano agli uomini il disegno di salvezza di Dio stesso» (pp. 125-126). Oltre all’analisi dei testi neotestamentari Monge prende anche in considerazione la storia della Chiesa: non potendo in poche pagine rendere conto di una vicenda complessa, l’Autore si accontenta di porre alcuni accenti sui Padri del I e II secolo, sul movimento monastico e sull’evoluzione medievale nelle infinite forme di cura e di carità nei confronti dei poveri.
La seconda parte del volume è un notevole esempio di quella che tecnicamente viene chiamataWirkungsgeschichte, cioè, “storia degli effetti” di un testo. Monge affronta la ricezione e l’interpretazione di Genesi 18, il celebre episodio dell’accoglienza dei tre ospiti da parte di Abramo. Dopo un’accurata lettura esegetica (precisa ma non tecnica), capace di far emergere il senso di quell’episodio all’interno del più ampio contesto del racconto genesiaco, sono presentate le letture delle tre tradizioni monoteistiche. Queste pagine non possono essere riassunte; vanno lette per gustare la penetrazione che ha dimostrato l’intelligenza della fede nelle differenti tradizioni religiose.
Conclude il volume un importante e bellissimo epilogo, che è la chiave di lettura dell’intero saggio. In esso l’Autore sintetizza i tre livelli fondamentali della pratica ospitale: quella individuale, quella che coinvolge la società e quella più propriamente teologale. In quest’ultima accezione il divino è colui che dà, ma anche colui che riceve l’ospitalità. Nella vicenda d’Israele «Yahvé adotta Israele nell’ambito dell’elezione ma si fa anche accogliere dagli uomini. […] In Cristo siamo tutti invitati ad accogliere il Padre, mediante l’azione dello Spirito. In altre parole, l’ospitalità a livello dell’umano è avvolta nel mistero stesso dell’ospitalità intra-divina» (p. 276). Le conseguenze teologiche sono notevoli; scrive ancora Monge: «È importante ribadire la convinzione che solo un radicamento profondo nella propria identità credente può favorire una migliore comprensione della fede dell’altro, del nostro interlocutore. Questo radicamento non ci impedisce neppure di mettere eventualmente in discussione le nostre proprie rappresentazioni di Dio, non tanto per aderire superficialmente alle rappresentazioni dell’altro, ma per constatare che Dio è propriamente al di là di tutte le rappresentazioni umane» (p. 279).
Quale atteggiamento ne consegue? La scoperta dell’estraneità (Monge parla anche di ”stranierità”) dell’altro non è percepita come una minaccia, ma al contrario come una possibilità che propizia la conversione.«Il vero dialogo non è mai un cavallo di Troia per mezzo del quale insinuarci nelle fortezze dell’altro, ma un fine in sé, una vera e propria necessità» (p. 288). Alienando gli altri perché diversi «si finisce per alienare se stessi da un mondo nel quale si vorrebbe essere maggiormente integrati» (p. 290).
Crediamo che il volume di Monge sia un prezioso contributo non solo per comprendere la pratica dell’ospitalità nelle tradizioni abramitiche, ma anche per riflettere sul senso teologico del dialogo.