La rappresentazione della Natività ha origini antiche, ma i suoi simboli sono radicati nell’uomo fin dalla sua nascita
Fare il presepe. Anche se non ne abbiamo una precisa conoscenza, lo sentiamo dentro che mentre costruiamo le montagne e disponiamo i pastori ci stiamo sintonizzando con una tradizione che viene da lontano. Il presepe, nei vestiti, nelle facce dei pastori, nelle arti e nei mestieri che rappresenta, racconta chi siamo stati nella storia, ma non solo. Una lettura “psicologica” del presepe ci racconta anche chi siamo, come si è articolata la coscienza collettiva dell’umanità e quella nostra di individui. Pensiamoci, quando guardiamo il presepe: la scelta di un pastore piuttosto che un altro, della posizione della grotta o della capanna, è un elemento che può dirci qualcosa su chi siamo. Esistono tante essenze del presepe, che si accompagnano a quella religiosa che esso incarna più in profondità, e soprattutto che non la contraddicono.
Oggi Aleteia ha voluto raccontarvi qualcosa della realtà storica del presepe, facendosi guidare dall’esperienza di Giuseppe Pezzone, storico del presepe e segretario dell’Associazione Italiana Amici del Presepio (AIAP), sede di Napoli; e di quella “simbolica”, attraverso le parole del prof. Claudio Widmann, psicologo e autore del celebre libro La simbologia del presepe.
Solitamente si dice che il presepe, come lo conosciamo noi oggi, nasce e si sviluppa a Napoli nel ‘700. E’ così?
Pezzone: Non è proprio così. Quando a Napoli è arrivato Carlo III di Borbone, nel 1734, dopo il trentennio austriaco, il presepe napoletano già esisteva da 100 anni. Certo, Carlo III amava il presepe, ma non l’ha inventato. Napoli è il crogiolo delle culture mediterranee, è un’urbe greca, che aveva assorbito tutte quelle che erano le divinità da Zoroastro a Horus, Dioniso e i suoi culti, fino alle divinità romane, con il culto di Mitra. Tutto questi “culti solari”, celebrati intorno al 25 dicembre, erano presenti a Napoli, se ne trovano infatti tracce a Pompei. Tutto questo confluisce nel presepe napoletano, che si sviluppa durante l’Illuminismo. È un presepe laico, che non ha una continuità col presepe religioso di Greccio. È un gioco della corte che inizia alla fine del ‘600, con i Vicereali austriaci che visitano questi presepi che si fanno nei palazzi della nobiltà e dell’alta borghesia napoletana, e si sviluppa nel ‘700. Non era accettato in chiesa, quel presepe, perché non si potevano mettere in scena una taverna, con tutti i vizi che questa rappresentava dall’epoca medievale, con un oste che nell’immaginario collettivo è un orco, o la “cantata dei pastori”, che appartiene al ‘600 barocco, con angeli che sono poco angeli. Alla metà del ‘700 già comincia la decadenza, quando Carlo III di Borbone lascia il regno di Napoli, prende il trono di Spagna e si porta via un po’ tutti, anche la porcellana di Capodimonte comincia a sparire. Spariscono i modellatori come Lorenzo Mosca. Noi possiamo solo immaginarci quei presepi, che occupavano tante stanze: pensiamo che il presepe di Emanuele Pinto, principe di Schitella, aveva 250 angeli. In queste rappresentazioni teatrali – il ‘700 era anche il secolo del teatro – la natività, il diversorium si chiamava, era qualche cosa di relegato ai piani alti del presepe, come scena secondaria. Sotto c’erano tutte scene di vita popolare che rappresentavano un po’ tutto quello che era rimasto nell’immaginario collettivo da secoli: il cacciatore posto in alto, i riti dell’Arcadia, del Dio Pan, e molto altro.
Quindi il presepe, pur rappresentando il popolo, diventa “popolare” molto più tardi?
Pezzone: No, nelle chiese già c’era. Ma quello era il presepe religioso, dove si rappresentavano le grotte (ce ne sono esempi a Napoli, a Bologna, perfino a Genova), l’evento della nascita di Cristo. Invece tutto l’aspetto popolano laico del presepe cortese, quello nelle chiese non c’era. Proprio per questo non si è mantenuto, con l’eccezione del presepe della Reggia di Caserta e quello conservato nel Bayerische Museum di Monaco di Baviera, che era quello di Carlo III. Abbiamo qualche esempio di “pastore” nel Museo di San Martino, ma sono già ottocenteschi. Di com’era il presepe nel ‘700 abbiamo solo rarissimi documenti: ad esempio sul principe di Schitella, che vendeva gli ori, i diamanti e gli zaffiri che stavano sulle pettorine e sulle corone dei Re Magi, quindi immaginiamoci che opulenza c’era. Vanvitelli quando giunge a Napoli scrive al fratello Urbano a Roma: “hanno un grande talento questi napoletani, ma si occupano di arte sì, ma di un’arte che è una ragazzata”: si riferiva al presepe. È dall’800 che il presepe si comincia a fare nelle case del popolo. Tutte le cose “belle”, pensiamo alla moda, nascono dall’alta società e poi si diffondono in tutti gli strati sociali. Oggi noi facciamo nelle nostre case un presepe domestico che è un po’ meno laico e un po’ più religioso di quello settecentesco.
Cosa distingue il presepe napoletano dagli altri presepi?
Pezzone: Nella “moda” del presepe napoletano si dovevano rappresentare tutte le terre del Regno delle Due Sicilie: lei trova il vestito da sposa della Capitanata (intendiamo la Puglia, la Calabria Ultra), il contadino siciliano, ma anche quello delle basse Marche. Erano rappresentati tutti i popoli del Regno con i loro vestiti: gli stessi vestiti popolari li può trovare nei piatti, sulle tazze e sulle porcellane di Capodimonte. Insomma, il Regno delle Due Sicilie veniva promosso in un modo un po’ diverso rispetto ad oggi. Poi, il presepe napoletano ha carattere laico. Quello romano prende spunto dalle rappresentazioni che venivano fate in Santa Maria De Presepium, oggi S. Maria Maggiore, che mostravano la natività sotto tettoie o nelle capanne, e non nelle grotte. È un’iconografia tipica anche nel Rinascimento, pensi alle Natività del Perugino. A Napoli poi c’era il tempio classico nel presepe, perché si scavava a Pompei ed Ercolano, erano ambienti colti e quindi si faceva quel tipo di scenografia. Ovviamente tutto questo non viene dai Vangeli. Del resto, tuttavia, continua a sopravvivere: pensiamo al culto dei Penati, per i quali in casa si mettevano le statuine di terracotta, che erano i defunti, oggi invece mettiamo la loro fotografia. Quello che si faceva nel mondo classico si fa ancora. Così come un tempo si esponevano le immagini di qualche personaggio importante, secondo loro baciato dalla divinità. Penso ad esempio a una statua fatta in San Gregorio Armeno di un Virgilio, che tra l’altro abitava proprio in quella zona – lui lì scrive la quarta Egloga, dove c’è un puer, una mater, la più messianica, scritta nel 39 a.C. – e non è cambiato nulla. In quella strada sono 2.500 anni che non cambia nulla. Ed infatti, lì si fanno statuine dei personaggi moderni. In quella via c’è un patrimonio da difendere, pensi che c’è perfino una pizzeria che sta lì da due millenni.
Cos’è il “mondo del presepe”, il suo scenario, da un punto di vista simbolico?
Widmann: Da un certo punto di vista nel presepe c’è un nucleo fisso, che è quello che si appella l’evento “storico” della Natività. Sappiamo che nel corso del tempo il tema della Natività ha subito delle variazioni, inizialmente era più centrale la figura dei magi, attualmente è più centrale la figura di S. Giuseppe; però diciamo che c’è un nucleo fisso che riguarda la Natività. C’è poi un secondo nucleo, sterminato, che riguarda tutto il resto, con variazioni
innumerevoli che sono solo apparentemente accessorie. Questa è la fenomenologia del mondo come viene ricreato sulla scena del presepe. Da un punto di vista puramente simbolico, prescindendo dai riferimenti storici e dalla rappresentazione del divino, dal solo e limitato punto di vista psicologico, il tema della Natività potrebbe essere una messa in scena delle riformulazioni della nostra personalità, di rigenerazioni di aspetti sempre nuovi della nostra identità. Potremmo anche dire che simbolicamente il tema della Natività costella la nascita della coscienza: nascita e rinascita, perché non è che uno nasce cosciente una volta per tutte ma la coscienza costantemente si riformula.
Che ruolo simbolico hanno le figure “storiche” del presepe, ad esempio, quelle dei “magi”?
Widmann: Diciamo che anche intorno ai magi quello che c’è nei Vangeli non è automaticamente storico, quello che c’è di storico si intreccia con altre narrazioni variamente apocrife, ecc. Di certo i maghi sono storicamente tre. Sono molto diversi dalle altre figure: anche socialmente, sono maghi, ma contemporaneamente sono re, quindi hanno un abbigliamento, un corteo e una serie di attribuzioni particolarmente sfarzose. Il fatto che siano tre delle volte viene integrato dal fatto che ci sia una Re Maga, dunque un elemento femminile, che accompagna. Inoltre i magi, rimanendo su questo registro fintamente storico, hanno il fatto che sono portatori di doni fissi: oro, incenso e mirra. Anche da un punto di vista simbolico hanno una duplice connotazione. Sono maghi, e quindi portatori di intuizione, sono anticipatori, quelli che vedono lungo, che più e prima di altri hanno intuito la portata di questo accadimento che da un punto di vista psicologico leggiamo come riformulazione dell’identità e rinascita della coscienza: quindi in qualche modo sono aspetti intuitivi ed anticipatori della psiche. Ma sono anche re, dunque sono figure che nobilitano questa anticipazione. È interessante, da un punto di vista simbolico, che questi tre maghi entrino in contatto ed in dissidio con un quarto re, Erode, quello che è un’uguale anticipazione che non nobilita l’accadimento, ma anzi si oppone. Questo ha dei paralleli interessanti nell’esperienza concreta, nel senso che noi tutti, quotidianamente, andiamo incontro a riformulazioni del nostro assetto personale, e ci sono dei lati psichici che promuovono il nuovo che sta per accadere, che nobilitano i cambiamenti, ed altri che si oppongono violentemente. Anche il tema dell’adorazione dei Magi, centrale nel presepe, è letteralmente un dar voce (ad-horo significava questo in origine) al nuovo che si fa avanti.
Gli animali che troviamo nel presepe, a cominciare dal bue e dall’asinello, che funzione simbolica hanno?
Widmann: Gli animali, se posso dire con apparente semplicismo, sono la nostra animalità, parlano del nostro aspetto più elementare, biologico, istintuale. Non potremmo esistere, anche nella nostra speculazione, se non fossimo tutto questo. Credo che sia molto interessante che nel presepe sia rimessa in scena una riformulazione dell’identità che chiama in causa una coralità di animali, cioè la profondità dell’essere: si cambia non solo perché ci si trasferisca da una via all’altra, ma perché il cambiamento morde nella carne, perché man mano che accumuliamo esperienze e facciamo carriera il nostro corpo invecchia. L’animalità parla di questo, anche dell’aspetto fisico. Gli animali hanno ciascuno una loro specificità di messaggio. Il tema dell’asino, per esempio, è importante: anche nel contesto biblico l’asino ha gli orecchi lunghi, e quindi ha una particolare propensione all’ascolto, e poi ha una sua radicalità, una sua ostinazione nell’andar dritto per la propria strada: nella Bibbia c’è l’asina di Bahalm che disarciona il profeta perché ha capito, prima del profeta, in che direzione si va. Tante volte, allo stesso modo, il nostro corpo capisce ciò che ci fa bene o male prima che lo comprendiamo noi stessi. Ci sono luoghi, persone, o situazioni dove il nostro corpo si trova bene o male, e questo saperlo ascoltare sarebbe importante. Altri animali essenziali, nel secondo scenario, sono le pecore, che per una larghissima simbologia parlano proprio dell’uomo-massa. Ogni trasformazione o riformazione dell’identità ci pone a confronto con questa dimensione: quanto noi siamo spinti da un’esigenza di essere originali, e da un’altra esigenza di essere massa, di pensare come tutti. Non c’è qui una valutazione di merito, meglio essere originali che massificati, perché la capacità nostra di essere collettivi è una grande conquista dell’uomo, una grande esigenza; la capacità di avere un’identità collettiva, un senso di responsabilità collettivo, di non essere solo per noi stessi, è un grande valore simboleggiato dalle pecore. Ma queste, allo stesso tempo, rappresentano anche il limite dell’esser collettivi, perché se ci limitiamo a fare e dire come tutti fanno, è davvero la tomba della nostra soggettività.
Allora tutte le arti e i mestieri che incontriamo nel presepe sono momenti della fenomenologia della nostra coscienza?
Widmann: Sicuramente. Lei pensi solo a quella figura del fornaio o del pizzaiolo. Le unisce tutta una simbologia del pane che non possiamo trascurare e che è squisitamente cristica: beth elem era la casa del pane, il luogo dove nasce è legato alla simbologia del pane. Nella nostra cultura il pane è elemento basilare, essenza di cui si nutre l’uomo. Oppure pensiamo ad una figura immancabile nei presepi provenzali, quella del postino: un falso storico se pensiamo che ai tempi dei romani non esistevano postini con la borsa a tracolla e la bicicletta, ma se stiamo al senso simbolico, chi meglio di un postino interpreta meglio l’idea di un messaggio nuovo, della “buona novella”, di novità o trasformazione? O pensiamo ad un’altra figura che per noi dell’Alto Adige era immancabile, lo spazzacamino, tutto nero, piazzato sempre dietro la capanna. Questa era una delle sopravvivenze domestiche dell’uomo nero, di queste figure che operano nell’ombra e che dall’ombra tramano per una nostra evoluzione. Ci sono scelte che noi non avremmo il coraggio di fare se qualcosa nell’ombra non si adoperasse per costringerci a farle.