Quale tipo di linguaggio è più in grado oggi di fra brillare la realtà di fede più stupefacente che Dio ci abbia regalato?di Gilberto Borghi
Negli anni ’60 del Novecento andava molto di moda in teologia l’espressione "svolta antropologica". Indicava il tentativo di alcuni teologi (ad esempio K. Rahner) di liberare la persona umana dall’oggettivismo della teologia scolastica e ricostruire una teologia a partire dal vissuto reale della persona. A questa visione altri teologi (tra cui H. U. von Balthasar) opponevano riserve e perplessità, perché temevano che questa "svolta" finisse per ridurre il cristianesimo solo ad una antropologia.
È proprio vero: la Chiesa ha dei tempi biblici. E non so se sia un bene o un male. Siamo ancora dentro a quella disputa! Mentre il mondo, di fianco a noi, è cambiato radicalmente e forse non ce ne siamo accorti abbastanza.
Mentre tornavo da scuola, qualche giorno fa, ho incontrato un amico prete, che stimo e che da buon romagnolo ha pochi peli sulla lingua. E dopo baci e abbracci, mi chiede: "Ma come fai a ricordarti così quello che succede in classe e che poi scrivi"? Gli rispondo: "Stavo giusto andando a casa per scrivere quello che, proprio stamattina, è successo all’ultima ora". "Ah, e cos’è? Sarei curioso …". "Discutevamo sull’aldilà cristiano – faccio io -. Una ragazza mi ha chiesto: Ma che cosa si fa in paradiso? Com’è stare li"? "Eh, una domanda da nulla", fa lui. "Infatti – ribatto io – più sono ingenui e più sono essenziali. Ma una risposta la dovevo tentare. Le ho detto: se cerchi una risposta con cui descrivere veramente com’è stare lì, non l’avrai. Né da me né da altri. Ma se vuoi averne una pallida idea facciamo un esercizio. Prova a recuperare dalla memoria il momento più bello della vita che hai vissuto fin’ora. Non dirmelo, pensalo solo. E prova a riascoltare quella emozione e come stavi. Bene. Scommetto che non sei sola in quella situazione. E lei mi ha detto: sì è vero prof. E scommetto anche che la relazione cha hai con chi è con te, la puoi chiamare in qualche modo Amore. Esatto prof. mi fa lei. E allora, le dico, adesso immagina che in quel momento il tempo si fermi, non scorra più, resti lì inchiodato senza più un dopo e un prima. E immagina che quello che provi non abbia più limiti e l’intensità che senti sia infinita. Ecco forse questa è un pallidissima e vaga idea di come può essere stare in paradiso".
"Scusami sai – fa il mio amico prete – non volermene se te lo dico, ma la tua mi sembra un risposta davvero di poco spessore. Abbiamo una tradizione teologica e mistica che su questo ha ben di più da dire. E soprattutto mi sembra che manchi del tutto il nocciolo della visione beatifica: vedere Dio come egli è". "Può anche essere vero – gli ho risposto – ma se gli parlo di visione beatifica e di vedere Dio, non credo proprio che susciti in loro l’idea che in paradiso la nostra felicità sarà totale". "Ho capito, certo, ma un modo dovremo pur trovarlo di far arrivare a loro la pienezza e la bellezza della nostra tradizione di fede. O no"? "Lo so, e preme anche a me, pur non avendo una risposta chiara. Ma di una cosa sono convinto: se non partiamo dal loro vissuto, non ci sono santi che tengano!"
Se ne è andato più affamato che convinto, vista l’ora. E pure io, assieme agli spaghetti, ho dovuto ingoiare la perplessità che mi ha consegnato lui. E a mo’ di digestivo, vista la pesantezza sullo stomaco, sono andato a pescare tre testi della nostra tradizione di fede che parlano del paradiso. Per metterli a confronto e chiedere anche a voi: quale tipo di linguaggio è più in grado oggi di fra brillare la realtà di fede più stupefacente che Dio ci abbia regalato?
Il primo. "La dote dell’anima beata consiste in tre doni: vedere Dio, conoscerlo come bene presente, sapere che tale bene presente è da noi posseduto; ciò corrisponde alle tre virtù teologali della fede, speranza e carità. Nella visione beatifica, l’intelletto umano può vedere Dio nella sua essenza, cioè può vedere Dio quale è, in modo che l’essenza divina, informi di sé conoscitivamente l’anima del beato".
Il secondo. "Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva. E chi vede Dio, ha conseguito tutti i beni che si possono concepire. Le anime di tutti i santi morti sono ammesse a vedere Dio, possono avere l’onore di partecipare alle gioie della salvezza e della luce eterna insieme con Cristo, e godere nel regno dei cieli, insieme con i giusti e gli amici di Dio, le gioie dell’immortalità raggiunta".
Il terzo. "Il cielo è l’attimo senza fine dell’amore. Nulla più ci separa dal Dio che la nostra anima ama e che ha cercato per una vita intera. Insieme con tutti gli angeli e i santi possiamo rallegrarci per sempre di Dio e con Dio. Chi osserva lo sguardo d’amore di una coppia, chi vede un bambino attaccato al seno cercare gli occhi della madre, come se volesse conservare per sempre ogni sorriso, riesce a farsi una vaga idea del cielo. Poter guardare Dio faccia a faccia è come un unico infinito attimo d’amore".
Al di là della ricerca degli autori, che lascio ai lettori, un dettaglio mi colpisce: perché il soggetto è sempre l’anima se noi crediamo nella resurrezione dei corpi?