Siamo capaci di dire parole che scaldano il cuore, che esprimono la nostra esperienza umana e toccano quelle altrui nella storia che vivono?di Christian Albini
Tra i deboli di cui la chiesa cattolica vuole prendersi cura con predilezione, si legge al n. 213 della recente esortazione Evangelii Gaudium, ci sono i nascituri di cui va riconosciuta la dignità umana. «Però è anche vero – aggiunge subito dopo papa Francesco – che abbiamo fatto poco per accompagnare le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie, particolarmente quando la vita che cresce in loro è sorta come conseguenza di una violenza o in un contesto di estrema povertà. Chi può non capire tali situazioni così dolorose?».
Sono parole in cui la convinzione umana e cristiana della negatività dell’aborto si accompagna all’attenzione alla donna e alla sua convinzione, che non sempre è scontata quando si affronta questo argomento. Ma c’è un ulteriore aspetto chiamato in causa dal papa, cioè il modo in cui se ne parla nel confronto pubblico.
Mi è venuto in mente al proposito l’episodio di Lidia Ravera, scrittrice e attualmente assessore alla cultura della regione Lazio, e delle reazioni suscitate dalle sue parole sui feti, definiti "grumi di materia". Una frase brutta e offensiva, come ha detto con efficacia Francesca Lozito proprio su Vino Nuovo, che ha avuto un seguito: in seguito alle critiche ricevute, la signora Ravera si è scusata sull’Huffington Post, ha precisato la sua posizione e ha raccontato anche qualcosa della sua vicenda di donna, aggiungendo degli elementi che consentono una riflessione più ampia.
Lidia Ravera ha chiesto scusa per i toni e le parole che ha usato. Bisogna per prima cosa dire che nell’imbarbarimento della nostra comunicazione pubblica ci sono tanti sassi, tante espressioni violente che vengono lanciate da più parti con molta leggerezza. Saper chiedere scusa è un passo minimo, ma non scontato oggi che tanti praticano l’insulto quasi fieramente e senza pudore.
Suona, però, quasi dissonante rispetto alle scuse il ribadire di non volersi sentire limitata nella propria libertà di espressione politica. Come se essa venisse compromessa da un controllo sulla forma usata nell’esprimersi e dall’attenzione agli effetti suscitati. La forma è sostanza. Qualsiasi libertà di espressione non può prescindere dal rispetto di chi ascolta: è fondamentale sia nell’orizzonte della fraternità sia in quello della democrazia. È un valore disatteso anche negli ambienti cattolici quando si confondono il polemismo e l’aggressività con una fede appassionata.
Un altro aspetto della vicenda riguarda la difficoltà che persiste in aree della sinistra italiana a liberarsi dal condizionamento di ostilità e pregiudizi storici nei confronti della visione religiosa del mondo e della chiesa cattolica. Questo per il non volere o sapere riconoscere i valori umani di cui la fede cristiana è portatrice. D’altra parte, è un’eredità che si riverbera anche nella posizione manichea secondo la quale persone, idee e partiti di sinistra appartengono a un fronte del male e dell’errore da rifiutare e combattere in blocco, come se non ci fossero in quell’area diversità di convinzioni e di storie. Basti pensare a chi, anche di recente, ha manifestato ostilità aprioristiche nei confronti del presidente della Repubblica Napolitano a motivo della sua appartenenza comunista.
Qui si misura la necessità di una cultura dell’incontro. Senza la capacità di riconoscere il positivo delle differenze, la nostra convivenza diventa solo lotta in cui si vuole prevalere. Rispetto a chi si pone nella corrente etico-politica che ha portato alla legge 194, ciò significa chiedersi se si ha a che fare con una negazione del valore della vita in nome dell’individualismo radicale, o se c’è anche altro, come l’attenzione alla donna in circostanze che suscitano dolore e profondo disagio. Non è la stessa cosa confrontarsi con l’una o l’altra posizione e bisogna tenerne conto.
Un’ulteriore dimensione, credo la più importante, è quella strettamente personale. Lidia Ravera ha vissuto in gioventù l’interruzione non voluta di una gravidanza e a lenire il suo dolore è stata la frase di un’infermiera: «Non era niente». C’è un fatto esistenziale che precede le questioni etiche e biologiche e che tirando le somme conta più di tutto.
A questo livello emergono delle domande per Lidia Ravera che sono domande, per tutti noi: era quella l’unica risposta possibile al suo dolore? Perché quella e non un’altra? Non basta dire di no all’aborto e ribadire le proprie convinzioni; a fare la differenza è il riuscire ad aprire un canale di relazione con l’interlocutore.
Il porre queste domande e il cercare le risposte non può essere un’asettica operazione razionale o dottrinale. È un cammino da percorrere insieme. Mai ho conosciuto qualcuno che si fosse messo in ricerca solo in forza di un enunciato, di un’idea. Come cattolici, ma prima ancora come persone, siamo capaci di dire parole che scaldano il cuore, che esprimono la nostra esperienza umana e toccano quelle altrui nella storia che vivono?
Se non è così, quella che chiamiamo evangelizzazione è solo propaganda, una lotta di opinioni in cui cerchiamo di convincere altri come piazzisti in un mercato. E i valori restano solo un terreno di disputa. I valori non sono l’oggetto di una dimostrazione, sono accolti e resi credibili dentro a una relazione. È bene ragionare su di essi, ma non è qui il passaggio decisivo.
Dopo aver respinto le brutte parole del politico Lidia Ravera, che cosa dire alla donna Lidia Ravera? Da parte mia, qui mi sento soltanto di rifarmi al mio vissuto di genitore, in cui la gravidanza e la nascita dei figli non sono stati mai solo fatti biologici, ma vicende segnate da una presenza riconosciuta e accolta nei segni che le sono propri. Dentro il corpo della donna s’iscrive un processo che fa progressivamente spazio nella sua storia a un "tu" che si fa via via più evidente: l’interruzione del ciclo mestruale, i segnali fisiologici, la visibilità dell’ecografia, le sensazioni nuove, la percezione dei movimenti… È un vissuto umano che precede le argomentazioni etiche o mediche, in cui trovano riscontro le parole del Salmo 139,15-16c:
Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi.
Non è questo il sentimento fondamentale di un’esperienza di maternità? Non è da qui che dovrebbe iniziare una necessario comprensione condivisa di questa esperienza? Il dato umano originario è che la gravidanza non è solo riproduzione, ma è relazione. Certo, ci sono purtroppo circostanze in cui questa relazione può essere ferita o ostacolata per vari motivi. Ma questa dovrebbe essere l’eccezione, non la regola, per cui il nostro primo dovere sociale è accompagnarla e custodirla. Il problema di quando la relazione è rifiutata rimane, non lo si può ignorare ed è difficile trovare un’unanimità di risposte.
L’aborto costituisce una delle fratture che attraversano la convivenza civile in Occidente e che abbiamo bisogno di ricomporre per non disgregarci. La disputa etica, che può facilmente sconfinare nell’ideologia, non è la soluzione a mio avviso, perché in una società in cui coesistono riferimenti etici diversificati lascerà sempre aperta un’ostilità tra vinti e vincitori senza arrivare a una vera soluzione. D’altra parte, non è neppure accettabile l’indifferenza che passa tutto sotto silenzio all’insegna di un vivi e lascia vivere ipocrita.
Ritengo che la via sia il dialogo umano, nel senso che non si arresta a un piano speculativo ma cerca un riferimento esistenziale condiviso. A questo livello il problema non è il braccio di ferro sull’aborto, ma la vicinanza e il sostegno alla donna che vive la gravidanza come un disagio su cui ci sarebbe molto da fare in ambito culturale e legislativo partendo dalla stessa legge 194.
Articolo tratto da: http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=1516