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La religione in rete: tra orgoglio identitario e pregiudizio

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 03/12/13
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Un libro di Roberto Rapaccini approfondisce i rischi a cui si espone chi vuole conoscere e discutere di fede e spiritualità in InternetLa rete, grande strumento di libertà o frullatore di opinioni e più o meno datati luoghi comuni? Il dilemma non è nuovo. Quelli che possono esserlo sono i tanti risvolti in cui la questione può essere articolata. In questo senso, senz’altro l’ultimo libro di Roberto Rapaccini, Il pregiudizio religioso sul web. Internet, da punta avanzata della democrazia a strumento di omologazione del pregiudizio (Cittadella Editore), esamina un complesso di temi estremamente delicato, che riguarda il rapporto tra il mezzo per noi ormai primario di acquisizione di conoscenze ed informazioni, e la dimensione più profonda della nostra umanità, quella della fede e dello spirito. Troppo spesso in internet ci troviamo esposti ad un turbinio di opinioni e di banalizzazioni che, se non ci avviciniamo con la dovuta cautela o accompagnati dalla guida di chi ne sa di più, rischia di confondere le nostre idee sulle altre religioni, o addirittura, e forse è ancora peggio, la nostra relazione personale con Dio.

Il tema è particolarmente sensibile per noi di Aleteia. Per questo, ne abbiamo parlato con l’autore del libro, Roberto Rapaccini, che è stato funzionario del Ministero dell’Interno presso l’Ufficio Relazioni Internazionali del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, e con la professoressa Chiara Giaccardi, sociologa e docente di Antropologia dei Media presso l’Università Cattolica di Milano, che tra le altre cose nel 2012 ha pubblicato un saggio dal titolo La comunicazione interculturale nell’era digitale.

Esiste un fenomeno dilagante di pregiudizio religioso in rete che l’ha spinta a scrivere il libro?

Rapaccini: Io ho pensato al pregiudizio perché viviamo in una società che è altamente conflittuale, e il pregiudizio è sicuramente uno strumento di delegittimazione e di discredito di un avversario. Ho esaminato il pregiudizio religioso perché, anche se viviamo in un’epoca che tende verso l’agnosticismo, in realtà la religione è un fattore di aggregazione molto importante. Mi interessava guardare alla rete perché quello è lo scenario nel quale si articola oggi la formazione dell’opinione pubblica. Se pensiamo ad un testo come La fabbrica del consenso, lì Chomsky parlava dei giornali e della televisione. Oggi il nuovo strumento di formazione dell’opinione pubblica è sicuramente la rete. Secondo me è un consenso particolarmente difficile, perché nella rete il pregiudizio tende a banalizzarsi e questo lo rende particolarmente insidioso.

Il pregiudizio religioso tende a nascere dall’opera di singoli o singoli gruppi, religiosi o etnici, o da strategie vere o proprie di propaganda di più ampio raggio?

Rapaccini: Dipende dal tipo di pregiudizio. Io direi che quello che riguarda l’antisemitismo è purtroppo un fenomeno ben radicato nella nostra società. Nel caso dell’islam, invece, forse c’è dietro anche una strategia politica, perché ha avuto come maggiore network gli Stati Uniti e si è sviluppato dall’onda che ha fatto seguito l’11 settembre. Qui parlerei forse di strategia politica. Come lei sa, a livello di mondo reale il pregiudizio cristiano è molto forte. Nella rete in realtà è più ridotto. In realtà c’è una polemica ben maggiore, ad esempio, tra il mondo ateo e il mondo cristiano, su argomenti come il creazionismo e l'evoluzionismo. Sotto il profilo invece dell’aggressività, soprattutto io vedo molto intenso il fenomeno antisemita. Di questo ne ha parlato anche una relazione parlamentare del 2011 che ha approfondito questo problema.

Dunque, il pregiudizio religioso che viaggia in rete nasce il più delle volte dal mondo reale, solo che in Internet trova una via più favorevole?

Rapaccini: Sicuramente, perché Internet è uno strumento sempre più invasivo della nostra realtà. E poi è il mezzo secondo il quale, con meccanismi diversi, si fonda l’opinione pubblica. Quindi sicuramente c’è un funzionamento diverso, perché nell’opinione pubblica che si forma attraverso i giornali e la televisione c’è un filtro, mentre Internet da questo punto di vista è profondamente democratico, dato che consente ad ognuno di esprimersi in maniera libera. Ovviamente, questo come ritorno ha un’inflazione delle opinioni, anche negative. Ecco perché il pregiudizio attraverso meccanismi perversi sedimenta in maniera molto forte in rete, anche attraverso il fenomeno della ripetizione dei siti che prendendo contenuti esistenti e li ripropongono continuamente. Con la ripetizione di certe notizie naviga anche un certo tipo di consenso che la gente attribuisce alla notizia stessa. In altri termini, manca quel filtro che la stampa e la televisione mettono in campo. Internet è un territorio estremamente libero.

Che strumenti ha l’individuo per difendersi nel momento in cui si espone al pregiudizio “digitale”? Come fa a riconoscerlo?

Rapaccini: Questo è un grosso problema, perché nella vita reale i controlli sono più stretti. In Internet, in particolare nei social network e su youtube, è necessario che qualcuno mi medi il contenuto che è trascritto nella linea o nell’evento che viene segnalato. Quindi, le faccio un esempio, il famoso film su Maometto è rimasto per molto tempo su Youtube, senza che nessuno nel mondo arabo vi prestasse attenzione. Dopo alcuni mesi, attraverso la traduzione in inglese, si sono diffusi nel mondo arabo dei pregiudizi sull’offensività di questo film. In realtà, dobbiamo sempre ricordare che il controllo su Internet è molto meno capillare di quanto si possa pensare.

Lei si occupa costantemente di comunicazione interculturale, soprattutto in rete. La religione è uno dei fattori principali di comunicazione interculturale in rete? La popolarità digitale espone la religione a rischi di omologazione?

Giaccardi: Le domande sono molto pertinenti. Una cosa che avevamo notato è che sicuramente la religione è un tema divisivo. Quindi, dalla ricerca che è confluita nel libro Abitanti della rete, che ho svolto nel 2010 sull’uso di Facebook da parte dei giovani dai 18 ai 25 anni, era emerso che la religione è uno dei temi di cui non si parla su Facebook, perché si preferisce parlare delle cose che aiutano a mantenere un’armonia del gruppo, che mettono in evidenza ciò che unisce piuttosto che ciò che divide. Quindi la religione, e tendenzialmente anche la politica, non rientrano negli argomenti di conversazione. Questo è importante, perché da una parte c’è una sorta di effetto di spirale del silenzio, cioè la religione non è oggetto di conversazione in rete; dall’altra parte però ci sono tutti i siti e i gruppi di discussione dei vari movimenti religiosi, delle minoranze etniche.

Per esempio, negli anni precedenti avevamo visitato i siti dei giovani musulmani italiani che erano veramente un luogo dove ci si dava consigli, dove si elaboravano alcune difficoltà di conciliare la cittadinanza italiana con il bisogno di preservare la propria identità religiosa, quindi un luogo di confronto, sì, ma tra persone che già la pensano allo stesso modo: questo è un effetto “stanza degli echi”, dove ci si parla tra persone che hanno un’affinità nel sentire, e quindi diventa una sorta di enclave digitale. Come sempre, però, la questione è ambivalente. Da una parte il web consente di accedere anche a quegli elementi culturali o religiosi nel senso più stretto, con i quali non abbiamo occasione di confrontarci nella nostra vita quotidiana: non so ad esempio, quante persone conoscano dei musulmani o possano intavolare una discussione, in questo un accostamento all’Islam può rappresentare un primo canale di accesso. Però è vero che è difficile accedere senza filtri, nel senso che si accede magari a siti dove l’Islam è dato per scontato, oppure a siti che sono anti-islamici e quindi già orientano la percezione. Quindi, orientarsi per conoscere le culture “altre” nel web senza alcuna guida è difficile ed espone ad influenze; magari ci si affida a persone che si conoscono ma che hanno già un orientamento o una certa valutazione che incidono sulla percezione di chi si avvicina.

Quali potrebbero essere le guide che agevolano i percorsi di ricerca e di dialogo in rete?

Giaccardi: La rete è qualche cosa a cui ormai si accede attraverso delle app o attraverso dei social media; per esempio, è molto diverso l’approccio che si ha se si passa da Facebook o se si passa da Twitter. Io sono personalmente convinta che Twitter sia ancora un luogo plurale, in cui stando un po’ ad osservare quello che gli altri dicono, e seguendo un po’ le diverse persone è possibile identificare degli opinion leader, in senso positivo, cioè delle persone che hanno delle competenze magari settoriali però qualificate, e che sono in grado di fornire dei percorsi di orientamento. Prima questo era il ruolo della stampa, che oggi invece è molto politicizzata, ideologizzata, e gli stessi giornalisti parlano in un codice dove quanto viene detto semplicemente nasconde altro; ora è in rete che è ancora possibile, per il momento, trovare delle figure che fanno un po’ da guida in questo ginepraio di informazioni, di notizie, di posizioni. Che ti aiutano a trovare dei punti di accesso che siano diversificati e che siano anche affidabili. Quindi, da una parte secondo me si tratta di muoversi autonomamente, e dall’altra parte di cercare qualche figura di riferimento che faciliti l’accesso a fonti attendibili. Questo secondo me lo si può fare molto più su Twitter, dove non c’è l’ossessione della cerchia, dell’amicizia, e dove posso seguire qualcuno solo perché lo ritengo una fonte affidabile.

La sua esperienza la porta a sostenere che il web sia più strumento di omologazione o di differenziazione?

Giaccardi: Ovviamente c’è un effetto legato alla dimensione quantitativa. Cioè, per avere più follower si tende ad assumere atteggiamenti che scivolano verso l’eccesso, oppure ad accontentare i gusti, a cercare di assecondare ciò che si crede essere più popolare. Sono tutte dinamiche che tra l’altro appartengono anche alla vita sociale in quanto tale. Però io credo che la dimensione del pluralismo sia salvaguardata in rete molto più che negli altri media, dove c’è ormai una colonizzazione che non escludo possa avvenire in futuro anche in rete, ma che per il momento non è ancora così evidente. C’è ancora in rete una certa possibilità di ascoltare voci plurali e diverse. I fenomeni di mimetismo, anche di seduzione, ci sono ma ci saranno sempre, perché fanno parte della vita sociale. Però non è ancora un ambito colonizzato. Ed è un ambito con cui gli altri media si devono confrontare. Questo secondo me è un bene, perché rompe un po’ alcuni sistemi che sono irrigiditi e che favoriscono più il pregiudizio che la conoscenza.

La rete ci ha reso più tolleranti, meno tolleranti, o ci ha lasciato più o meno inalterati nella nostra natura?

Giaccardi: In questo caso, vorrei contestare la formulazione della domanda. Nel senso che la rete non ci rende più o meno qualcosa. Non è la rete che ci rende, come non è l’alcol che ci rende alcolisti, come non è la strada che ci rende teppisti. La rete semplicemente ha amplificato, questo sì. E’ un moltiplicatore, la rete. Rende molto più visibili e più contagiose certe dinamiche. Però la verità è che noi siamo solo apparentemente tolleranti, ma in realtà lo siamo molto poco. Scambiamo la tolleranza con l’accettazione delle piccole differenze che non ci disturbano, ma questa non è una vera tolleranza. La rete forse un po’ ci provoca, perché c’è dentro di tutto, senza tanti filtri. Sono rimasta molto colpita qualche giorno fa quando ho letto un articolo sulla pagina online del Corriere della Sera, dove si raccontava del barcone con i migranti al largo delle coste calabresi in balia di una tempesta: tra i commenti in fondo che rispondevano alla domanda “come ti fa sentire quest’articolo?”, la risposta più frequente era “divertito”. Questo a me ha dato la misura di una civiltà incivile, in cui la dimensione della tolleranza si rivela per quello che è, cioè un’ipocrisia: finché l’altro non ci dà fastidio lo tolleriamo, nel momento in cui invece ci chiama in causa in qualche modo allora diventiamo subito sprezzanti o disumani. La rete non incide su questo, ma amplifica le nostre debolezze, e magari ci costringe a riflettere su questo nostro individualismo di cui siamo impregnati. E forse, proprio perché la logica della rete è una logica connettiva, ci rende più evidenti i limiti culturali dell’individualismo e può costituire uno stimolo se non altro a rivedere certe modalità in modo più relazionale e più rivolte all’altro, anche più rispettose dell’altro.

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