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Aids: un vaccino per la cura dei bambini

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Chiara Santomiero - Aleteia Team - pubblicato il 29/11/13
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Alla vigilia della Giornata mondiale contro l’Aids, un successo dell’Ospedale Bambino Gesù che permetterà di alleviare la condizione dei bambini affetti da HivA fine 2012 erano 35,3 milioni le persone affette da Hiv in tutto il mondo. Nell'ultimo anno si sono registrati più di 2 milioni di nuovi infetti. Sono in calo le morti per Aids (1,6 milioni nel 2012) e anche il numero di nuovi infetti in età pediatrica (dal 2005 al 2012 si è passati da 550 mila a 260 mila), ma l’accesso ai trattamenti antiretrovirali nella popolazione pediatrica è circa la metà rispetto alla popolazione adulta (34% di bambini infetti trattati contro il 65% degli adulti). In alcuni Paesi solo 3 bambini su 10 ricevono le cure appropriate. Per la prima volta al mondo l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, in collaborazione con la cattedra di pediatria dell'Università di Roma “Tor Vergata” e il Laboratorio di evoluzione e trasmissione virale dell'Irccs San Raffaele di Milano, ha testato con successo su due gruppi di 10 bambini affetti da Hiv, un vaccino terapeutico pediatrico che apre nuove prospettive nella cura e nella ricerca.

Il vaccino sperimentato è stato realizzato, secondo le indicazioni del gruppo del professor Paolo Rossi del Bambino Gesù, dal Karolinska Instituet di Stoccolma. Aleteia ha chiesto spiegazioni al dottor Paolo Palma, immunoinfettivologo del Bambino Gesù, che ha condotto la sperimentazione in modalità non-profit (cioè senza contributi di case farmaceutiche).

Un vaccino pediatrico terapeutico: di cosa si tratta?

Palma: Si tratta di una sperimentazione clinica di particolare interesse perché si fonda su due concetti di rilievo: la prima è la vaccinazione terapeutica, cioè vaccinare un soggetto che ha contratto un'infezione per metterlo in grado di contrastare l'infezione che ha contratto, aumentando la sua capacità di reagire. In secondo luogo quello testato è un vaccino a Dna che è un concetto nuovo della vaccinologia. Siamo a 20 anni dalla prima sperimentazione con successo di questo tipo di vaccino sugli adulti, ma questa è la prima volta che si sperimenta su dei bambini. Viene immesso nell'organismo un piccolo tratto di Dna del virus dell'Hiv che verrà usato dall'organismo stesso per codificare la proteina verso la quale verrà indotta la risposta immunologica del soggetto a cui viene inoculato il vaccino e che teoricamente dovrebbe essere una risposta protettiva, o quanto meno in grado di modificare il controllo del virus da parte dell'organismo ospite.

Al momento non esistono vaccini profilattici, cioè in grado di vaccinare contro l'infezione da Hiv prima che sia contratta?

Palma: Purtroppo no. La storia dei vaccini profilattici così come quella dei vaccini terapeutici è ricca di tentativi e di insuccessi. L'unico tentativo per un vaccino profilattico di qualche interesse, che è ancora in fase di sperimentazione, è quello tailandese portato avanti da ricercatori americani che ha dimostrato una lieve ridotta incidenza di nuove infezioni tra i soggetti vaccinati. Questa sperimentazione ha provocato discussioni tra gli esperti perché lascia aperti molti interrogativi e inoltre il risultato è solo una minima differenza tra chi ha fatto il vaccino e chi no. La vaccinazione terapeutica è invece una condizione diversa che ha come obiettivo quello di “educare” il sistema immunitario del soggetto che viene vaccinato a rispondere al virus, controllando la replicazione del virus stesso.

Su quale campione di bambini è stato testato il vaccino?

Palma: Nell'ambito della comunità scientifica c'è sempre stata una remora su quale sia la corte ideale per la somministrazione del vaccino. Nel nostro gruppo c'è la convinzione che sia più adatta la terapia precoce. Studi portati avanti dalla dottoressa Cancrini, dal professor Rossi e anche da me, evidenziano che il bambino che riceve un trattamento precoce – nei primi mesi di vita o non appena si sia a conoscenza dell'infezione da Hiv – ha un vantaggio, un miglior sviluppo del sistema immunitario, quindi migliore capacità di rispondere a un eventuale vaccino, rispetto a chi inizia la terapia più tardivamente. Uno studio che abbiamo pubblicato sulla rivista scientifica Pnas dimostra proprio che bambini che sono stati trattati nei loro primi giorni di vita hanno una capacità del loro sistema B, dei loro linfociti, di produrre risposte protettive che non è presente nei bambini che sono stati trattati tardivamente. Con questo razionale siamo andati a selezionare la nostra corte di pazienti nell'ambito dei circa 120 pazienti con infezione verticale da Hiv che stiamo seguendo all'Ospedale Bambino Gesù.

Il vaccino sperimentato avrà effetto anche sulle terapie attuali?

Palma: Lo speriamo molto. La terapia attuale per l'Hiv prevede che i pazienti vengano trattati con farmaci antiretrovirali dalla nascita e per ogni giorno della loro vita. Per tutta la vita. Nella migliore delle ipotesi la terapia prevede la combinazione di più farmaci che vengono assunti più volte al giorno. Questa condizione diventa particolarmente difficile quando i pazienti entrano nell'adolescenza, un 'età di insofferenza che porta a trascurare l'assunzione regolare dei farmaci. Tutto ciò comporta un aumentato rischio di progressione della malattia che va dall'insorgenza di nuovi ceppi virali che sono resistenti alla terapia, a una riduzione delle possibilità terapeutiche future. Il nostro obiettivo è permettere un alleggerimento dei regimi terapeutici attuali in questi bambini associando un vaccino terapeutico. L'obiettivo massimo futuro è consentire periodi di sospensione della terapia che sia però sicura e non permetta al virus di replicare e di distruggere ulteriormente il sistema immunitario e di mettere il paziente ad ulteriore rischio.

Il 1° dicembre è la Giornata mondiale contro l'Aids: a che punto siamo nella prevenzione della malattia?

Palma: I bambini in cura al Bambino Gesù hanno una infezione verticale da Hiv cioè hanno contratto l'infezione dalla mamma. Attualmente i protocolli di prevenzione di trasmissione materno-infantile permetterebbero la pressoché assenza di nuove infezioni neonatali. Quello che avviene purtroppo ancora oggi sul nostro territorio è che molto spesso il test non viene effettuato durante la gravidanza. Spesso, inoltre, non viene effettuato uno screening attento nelle gravidanze successive confidando nel fatto che se era negativo il test prima della precedente gravidanza, non sia necessario ripeterlo, mentre invece ci capita che la mamma venga a sapere di essere affetta da Hiv tramite la diagnosi fatta al neonato. Negli ultimi anni c'è stato un discreto numeri di casi del genere tenendo conto che siamo in un Paese industrializzato, che ha pieno accesso alle terapie antiretrovirali: questo è un grande merito del Servizio sanitario pubblico che permette a un malato di curarsi in modo gratuito, cosa che non avviene in molti Stati del mondo e men che meno nei Paesi più poveri si parla di epidemia o di pandemia vera e propria da Hiv. Ciò che oggi non avviene ancora in maniera adeguata è veicolare un messaggio : l'Hiv è un'infezione che non è stata ancora sconfitta, né in ambito pediatrico né in ambito adolescenziale. Occorre mantenere la piena coscienza delle modalità con le quali si trasmette l'infezione e diffondere la cultura delle prevenzione sia durante la gravidanza che nell'epoca dell'adolescenza, quando molto spesso i ragazzi vanno a conoscere la sessualità. Tutto ciò rappresenta una sfida sia in ambito medico che delle politiche sanitarie nazionali.

 

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