Se una volta era una bandiera della cultura anticlericale, oggi pare piuttosto rinfocolato dall’area teocondi Guido Mocellin
Torno, dopo due settimane, a ragionare sulla rassegna stampa religiosa, e ritrovo la situazione più o meno là dove l’avevo lasciata: ben 57 dei 183 «titoli con Dio» comparsi sui quotidiani italiani dal 16 al 22 novembre scorso – uno su tre – sono «titoli con Francesco», senza che egli abbia compiuto alcun atto di magistero, di culto o di governo di maggiore rilevanza (documenti, viaggi, liturgie solenni…).
Ecco infatti, nella lingua scarna dei miei appunti, le tessere che hanno composto il temporaneo mosaico dell’ultimo «Francesco feriale»: toglie da sito vaticano intervista a Scalfari; annulla concerto conclusivo Anno della fede; sta danneggiando interessi ‘ndrangheta; loda mons. Marchetto come storico del Vaticano II; invia videomessaggio a Guadalupe; telefona a Palmaro; a Buenos Aires era contro i matrimoni gay; cucina una paella favolosa; gli scrive un ergastolano di Padova; abbraccia un malato UNITALSI; promuove la Misericordina (11 titoli); dice di diffidare dai santoni e guaritori; telefona a una suora della Terra dei fuochi; si confessa ogni 15 giorni; non saluta in udienza generale il fratello della Orlandi; telefona a bambino con genitori che lavorano la domenica; invia messaggio a Festival dottrina sociale di Verona; gli scrive (anche) don Chino Pezzoli.
La pubblicazione di un nuovo motu proprio sull’Autorità di informazione finanziaria ha donato l’ennesima dose di popolarità al tema dello IOR e in genere delle finanze vaticane, con 14 titoli.
L’idea che «dietro» al Nuovo centrodestra di Alfano ci sia mons. Fisichella, e dietro a entrambi l’immancabile card. Ruini, ha rivitalizzato un poco anche lo sfibratissimo tema de «i cattolici e la politica italiana», con 12 titoli.
Sono stati 11 infine i titoli che hanno annunciato la fine della breve proroga di mons. Crociata a capo della Segreteria generale della CEI, e la sua nomina a vescovo di Latina: dove però la chiave di lettura è stata così piattamente e monotematicamente «carrieristica» da farmi chiedere se non c’è anche un po’ (un po’?) di ipocrisia nell’opinione pubblica quando loda i papi (oggi Francesco, ieri Benedetto) se si pronunciano contro il «carrierismo» ecclesiastico e poi non sa raccontare altro che in questa chiave il trasferimento in una diocesi che è la terza del Lazio per popolazione (dopo Roma e Albano) di un vescovo che ha solo sessant’anni: appena due in più dell’età media di prima nomina dei vescovi italiani negli ultimi 5 anni.
E a proposito di luoghi comuni, segnalo, tra i molti contrappassi della popolarità di papa Bergoglio, anche uno strano e deformato risorgere del pregiudizio contro i gesuiti.
Questa settimana lo spunto mi viene da uno dei più che quotidiani pezzi teocon del Foglio, uscito il 21 a firma di Giulio Meotti, in questo caso intento a stigmatizzare, con le sue buone ragioni, la deriva eutanasica e antinatalista della legislazione belga.
Quasi tutto l’articolo è infatti dedicato al pensiero di Etienne Vermeersch, un intellettuale che viene presentato come «il padre della legge sull’eutanasia e l’aborto in Belgio» e del quale non condivido, né in tutto né in parte, una sola delle teorie, del resto non nuove, che l’articolo riporta.
Ma l’articolo riporta anche che Vermeersch, «nato in una famiglia cattolica, è entrato nell’ordine dei gesuiti nel 1953», mentre «cinque anni dopo (…) rompe con la fede cattolica e diventa un militante scettico e ateista».
Ciò che il sottotitolo strizza in «Le idee di Vermeersch, l’ex-gesuita che teorizza anche la sterilizzazione». Come se la sua cultura attuale si fosse formata «grazie» ai brevi trascorsi tra i gesuiti e non, come è invece evidente dall’articolo, «per reazione» a quei trascorsi.
Un altro esempio estremo di agitazione del pregiudizio antigesuita lo ricordo quando Lapo Elkann dichiarò di avere subito molestie in uno dei collegi in cui è vissuto da ragazzo, e subito divenne – salvo successiva smentita – un collegio «di gesuiti».
In molti altri pezzi recenti, in forma meno estrema ma insistita, mi è parso evidente il tentativo di ri-evocare quei sentimenti negativi che, in anni più vicini, erano pressoché scomparsi, ma che precedentemente era abituale associare a quel termine. Infatti, alla voce «gesuita», il mio vecchio dizionario Zingarelli, la mitica «Undicesima» del 1983, dava, come secondo significato, lo spregiativo «persona ipocrita e astuta».
Dunque niente di nuovo? La novità c’è, ed è grossa. È grossa perché quel pregiudizio, per quanto alimentato da vicende storiche travagliate, apparteneva comunque alla cultura dell’anticlericalismo. Oggi invece esso pare rinfocolato dall’area teocon, non su una qualche base reale, ma semplicemente perché tale area si sente in qualche modo minacciata dal profilo pubblico di Francesco.
Io allora, che lavoro da trent’anni coi dehoniani e da dieci coi domenicani, e dunque non credo di essere sospetto di partigianeria ignaziana, voglio ricordare che i gesuiti, sotto la guida di p. Arrupe, sono stati la congregazione che più seriamente ed efficacemente ha intrapreso il necessario rinnovamento della vita religiosa: una sorta di rifondazione.
Che ciascun gesuita oggi passa attraverso un percorso di formazione umana, spirituale e intellettuale che schianterebbe molti dei suoi critici.
Che le tensioni dei primi anni del pontificato di Giovanni Paolo II sono state affrontate e superate grazie alle sole risorse della Compagnia stessa, prima col delegato pontificio p. Dezza e poi con la lunga stagione del generale p. Kolvenbach.
Che Benedetto XVI ha dato ripetutamente prova di scegliere volentieri tra i gesuiti i suoi collaboratori, a cominciare da p. Lombardi, del quale – lo dico da analista dei rapporti tra Chiesa e media – ho un’opinione altissima.
Che erano membri della Compagnia di Gesù alcuni tra i «giganti» della Chiesa degli ultimi cinquant’anni (oltre ai citati Arrupe e Kolvenbach). Vado a memoria e mi vengono in mente: Augustine Bea, Jean Daniélou, Henri-Marie De Lubac, Avery Dulles, Jacques Dupuis, Bernard Lonergan, Carlo Maria Martini, John Courtney Murray, Karl Rahner, Hans Urs von Balthasar (uscitone dopo vent’anni), più non pochi martiri, tra i quali – vado sempre a memoria – i sei dell’Università centramericana del Salvador uccisi giusto 24 anni fa.
E infine, che evocare i pregiudizi non è mai cosa buona. Lo pensavo di quelli, «etnici», agitati a suo tempo contro il «polacco» Wojtyla e il «tedesco» Ratzinger. Lo penso di questo, «religioso», agitato contro il «gesuita» Bergoglio.