Il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha ricordato a Roma i 50 anni dalla pubblicazione dell’enciclica “Pacem in Terris” del Beato Giovanni XXIIIdi Omar Ebrahime
L’11 aprile del 1963, sentendo forse imminente l’avvicinarsi della sua morte, Papa Giovanni XXIII pubblica l’ultima enciclica del suo pontificato: la Pacem in Terris. Raramente un documento pontificio, pur se rivolto non solo ai credenti ma a tutti gli uomini di buoni volontà ovunque presenti, ha avuto un eco e una risonanza mediatica internazionale come in questo caso. Promulgata proprio nei giorni in cui la crisi missilistica di Cuba (scoppiata nell’ottobre dell’anno prima) rischiava di scatenare un nuovo conflitto atomico tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’enciclica passerà alla storia come uno dei più efficaci successi di mediazione, e riconciliazione, politico-diplomatica della Santa Sede. Per commemorare opportunamente lo storico evento il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha organizzato la settimana scorsa a Roma tre giorni di celebrazioni con delegazioni di chiese locali, comunità laicali e movimenti provenienti praticamente da ogni parte del mondo.
Ad inaugurare la manifestazione è stato il Presidente del dicastero vaticano, il cardinale ghanese Peter K.A. Turkson, che ha evidenziato come il documento pontificio sia – oggi più che mai – caratterizzato da una perdurante attualità: basti pensare alle attuali minacce alla pace che dalla sponda meridionale del Mediterraneo, ma anche dal sempre più complicato scacchiere mediorientale, si diffondono rapidamente su scala globale arrivando a mettere in discussione delicatissimi equilibri internazionali che si pensavano faticosamente raggiunti una volta per tutte. Inoltre, temi quali la riforma strategica delle Nazioni Unite (si pensi ad esempio alle periodiche proposte di riforma presentate, finora invano, su quella struttura centrale che é il Consiglio di Sicurezza) e l’elaborazione di una visione antropologicamente finalmente condivisa della persona, costituiscono oggi – com’è di tutta evidenza – punti di urgente confronto ormai tanto nel dibattito pubblico in corso nei Paesi occidentali quanto in quelli economicamente emergenti, o in via di sviluppo. Papa Francesco non a caso ha voluto concedere agli oltre trecento partecipanti convenuti a Roma, presso la Sala Clementina del Palazzo Apostolico, un’udienza speciale con l’obiettivo di tornare a riflettere – non per una questione di mera forma, né certo per un omaggio di maniera al futuro ‘San’ Giovanni XXIII – su quello storico documento che a modo suo avrebbe indicato una preziosa via d’uscita a una delle tante crisi internazionali della Guerra Fredda (1945-1991).
Nell’udienza, il Pontefice ha definito l’enciclica giovannea come un “grido rivolto agli uomini e una supplica rivolta al Cielo” dichiarando che se copiosi sono stati allora i frutti, tuttavia oggi “il mondo continua ad avere bisogno di pace”: guerre, contese e conflitti violenti di vario tipo, locali e internazionali, continuano infatti a insanguinare le cronache odierne dall’Asia all’Africa fino al Sudamerica. Davanti a tali tragedie, ha ricordato Papa Francesco, tutti parlano della necessità improrogabile della pace ma quasi nessuno pare chiedersi da dove quest’ultima abbia la sua reale e indistruttibile origine. La risposta di Papa Roncalli è nota: il fondamento della vera pace si trova nell’origine ultimamente divina dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio e chiamato ad essere seguace imitatore di Gesù. Contrariamente a quanto potrebbe intendersi superficialmente, insomma, la pace non è un concetto astratto o generalmente indefinito (come la semplice assenza di guerra o il non subire violenze) ma la pienezza della verità abitata dall’amore, che poi è il nome stesso di Gesù. Si comprende così allora come mai il documento pontificio caratterizza la pace come la somma di quattro variabili: verità, giustizia, amore e libertà, partendo dal valore assoluto e inalienabile della persona umana e dalla sua altissima dignità. Papa Francesco, dopo aver ricordato i diritti fondamentali ancora oggi spesso negati in contesti di dittatura o povertà – come quelli al cibo, all’acqua e alla casa – ha ricordato che anche la possibilità di creare una famiglia dovrebbe essere una libertà concretamente garantita ovunque e non un lusso per pochi privilegiati. Ultimamente, poi, a queste emergenze si sono aggiunte (soprattutto in Occidente) quelle legate alla ‘questione educativa e all’influenza dei mass-media’ sulla crescita delle nuove generazioni, sempre più esposte – senza difesa alcuna – a quella che già Benedetto XVI aveva declinato come ‘dittatura del relativismo’: un mondo virtuale (fatto dalla stragrande maggioranza di tv, canali internet e stampa) dove il bene e il male vengono continuamente rimescolati, senza offrire un giudizio esterno che sia uno, fino a renderli pressoché irriconoscibili. Prima di intavolare grandi discorsi moralistici bisognerebbe quindi ricordarsi – con un pragmatismo tipicamente gesuita, verrebbe da commentare – che il primo luogo della pace è il singolo cuore umano (lo insegnava già Sant’Agostino), cuore che sarà destinato a rimanere inquieto e vagabondo (e quindi ‘socialmente’ agitato) finchè non avrà trovato la verità per cui è stato fatto.
In conclusione, Papa Francesco non ha risparmiato critiche ai grandi attori internazionali della finanza che hanno spinto i nostri popoli nel baratro di una “crisi economica inumana” e ha definito una “vergogna” la gestione irresponsabile dei fenomeni migratori di massa che dal Maghreb in questi mesi investono le coste di Lampedusa causando – da ultimo – centinaia di morti in mare. Proprio sulla crisi economica e il rinnovamento (auspicato) della gerarchia dei valori si è tenuta la tavola rotonda più attesa del giorno seguente in cui si sono confrontati il professor Martin Schlag (direttore del Centro di Ricerca “Mercati, Cultura ed Etica” presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma) e il professor Stefano Zaamagni (docente di economia politica presso l’Università di Bologna). A prendere la parola per primo è stato Schlag che – dopo aver premesso che la natura della crisi non è meramente economica quanto piuttosto “culturale” e ha a che fare con scelte recenti della società occidentale nel suo insieme – ha specificato che la risposta da dare, realisticamente, non può essere generale ma va diversificata e adattata luogo per luogo. Tuttavia, è possibile ugualmente individuare tre linee-direttrici: anzitutto la bontà degli strumenti economici in quanto tali, se usati per il bene comune, e che vanno semmai purificati nell’opera di ‘nuova evangelizzazione’, non distrutti o demonizzati come se fossero il male assoluto. Quindi il primato della libertà dell’agire umano da tenere fermo contro vecchie e nuove ideologie che vorrebbero negarla in favore di entità astratte (lo Stato, il Debito etc.), infine l’ispirazione spirituale dettata dal Vangelo che – tanto per essere concreti – nei secoli passati ha permesso il nascere di istituti di credito e monti di pietà a partire addirittura dall’opera di Ordini mendicanti come i Francescani. Il tutto agendo sempre sullo sfondo di quel principio sociale fondamentale universalizzato, e diffuso per primo, solamente dal Cristianesimo: la carità.
Di tenore sensibilmente diverso l’intervento di Zamagni che ha ravvisato invece nelle serie “diseguaglianze endemiche” dell’attuale sistema socio-economico una grave minaccia alla pace. Per il docente di Bologna la globalizzazione dei mercati non ha portato quello sviluppo umano integrale (cioè sia di tipo morale che materiale) che aveva a lungo promesso, soprattutto nelle aree del pianeta più disagiate. Oggi, poi, nel pieno di una crisi economico-finanziaria che investe di sé tutto l’Occidente e si è notevolmente aggravata nell’arco degli ultimi cinque anni non è più possibile assistere da spettatori alle dinamiche delle borse e dei mercati con la convinzione ottimistica (ma alla radice immotivata) che tutto si sistemerà in modo automatico: occorre invece un monitoraggio più attento da parte di vere e proprie istituzioni di controllo deputate che – se necessario – intervengano anche attivamente nei processi in atto correggendo abusi e disfunzioni: “è giunto il tempo di piangere di meno sugli orrori di cui siamo quotidianamente testimoni e di pensare più sui modi di ridisegnare quell’insieme di istituzioni economiche e finanziarie internazionali che sono le vere generatrici delle ingiustizie e delle tante forme di occasioni di guerra”. Un richiamo forte che non ha mancato di accendere discussioni: si tratta infatti di capire se la virtù riguarda solamente i comportamenti personali dei singoli o anche le istituzioni, e, in quest’ultimo caso, se e in che modo possa essere correttamente veicolata. In mezzo, ancora una volta, c’è più teologia di quanta superficialmente se ne possa immaginare. Dopotutto, ha concluso Zamagni, storicamente non è mai stato vero che le “istituzioni siano assiologicamente neutre” per il fatto di essere semplicemente tali: il dramma della libertà si configura sempre come una scelta di campo e irrevocabile, appunto perchè è un dramma e una questione serissima, viceversa sarebbe solo una commedia da quattro soldi.
[FONTE:http://www.vanthuanobservatory.org/notizie-dsc/notizia-dsc.php?lang=it&id=1752]