Una riflessione sull’infanzia nella giornata ad essa dedicata, stasera il film di Pupi Avati su Rai 1 sul tema dell’affidamento
Oggi è la giornata nazionale per l’infanzia, una occasione per fare il punto sulla situazione, spesso disagiata, dei più piccoli nel nostro Paese. Ci sono innanzi tutto i bisogni materiali da rispettare e far rispettare, dall’integrità, contro ogni abuso, all’accesso ad una adeguata nutrizione e cura. In Italia esiste una pericolosa incidenza di minori poveri, oggi almeno un milione (Save The Children). A questo si aggiunge la non sempre facile situazione dei minori stranieri, piccoli che non hanno cittadinanza.
L’appello, "a nome dei bambini italiani" in 14 punti, di Telefono Azzurro "per tornare ad accompagnare bambini e adolescenti" avanza una serie di richieste. Fra queste: l’istituzione di un dipartimento interno al Consiglio dei Ministri responsabile delle scelte strategiche e politiche che incidono sulla vita dei bambini; la disposizione di maggiori fondi per la loro tutela; la predisposizione di un sistema centrale in grado di coordinare efficacemente la lotta al bullismo; il riconoscimento della cittadinanza a tutti i bambini nati in Italia e la tutela dei minori extracomunitari non accompagnati; la lotta alla spettacolarizzazione di casi relativi a minori da parte dei media. (Repubblica, 20 novembre)
Ma c’è un altro aspetto, quello relazionale, quello affettivo che viene sviluppato nelle famiglie o almeno dovrebbe essere così. Di questo aspetto, di questa tematica, si occupa meritoriamente un film tv che stasera va in onda su Rai 1: “Il bambino cattivo”, di Pupi Avati, uno dei maestri del cinema italiano, esplora con garbo e senza fronzoli la realtà della separazione genitoriale, il dramma di un bambino che non potendo, non volendo, parteggiare per il padre o la madre (quante volte nelle separazioni accade questo tentativo di mettere il figlio contro l’altro partner?) si ritrova di fatto solo, senza punti di riferimento affettivi. Nel cast anche Luigi Lo Cascio e Donatella Finocchiaro nel ruolo dei genitori di Brando (Leonardo Della Bianca).
Lo psicoterapeuta Luigi Cancrini, che ha dato la sua disponibilità al regista come consulente, scrive così su un articolo dell’Unità: “Sottrarre il bambino ai veleni e alla violenza scomposta di un litigio irrimediabile è prima di tutto un dovere dei servizi che dei minori in difficoltà si occupano ed è qui, a mio avviso, che il film in modo particolarmente riuscito rompe con il pregiudizio relativo alle Case Famiglia” (19 novembre), questo perché sono luoghi in cui esiste l’accoglienza e il giovane protagonista non viene “strappato” dai suoi affetti, ma affidato a chi con pazienza e competenza si mette a disposizione per recepire l’angoscia, la paura e il dolore del bambino tolto alla sua famiglia. L’attenzione a costruire un luogo sicuro per il minore è la preoccupazione che deve venire a tutti noi e che nel film di Pupi Avati viene rappresentato prima con il tentativo di affidamento alla nonna (che ama il nipote ma che non riesce ad occuparsi di lui) e solo al fallimento di questo tentativo “endogeno” ricorre ai servizi sociali.
Così il regista: “Ritengo ‘Il bambino cattivo‘ un film necessario che fissa in modo impietoso il bersaglio che ha davanti.Un film che non ha incertezze nel denunciare, come sempre più di frequente, che la vittima più esposta nella disgregazione delle unioni matrimoniali sia proprio lui, quel figlio che non certo per sua responsabilità è condannato ad assistere da spettatore totalmente “passivizzato” allo sballottamento affettivo/istituzionale, al quale sarà sottoposto nell’autoassolversi dall’intero contesto che nel “relativismo morale” in cui viviamo si pone la sua felicità, la sua salute mentale, come ultimo dei problemi”
Che in una intervista apparsa questo mercoledì sulla versione online del settimanale Vanity Fair ha aggiunto: «Dedico gran parte delle mie giornate alle riflessioni sullo stato della famiglia attuale. Ho cercato con tanti miei film di raccontarla, e di seguirne le evoluzioni. Quello che più mi incuriosisce, da sempre, è il ruolo del padre. Man mano che passano gli anni, il padre è sempre più assente, lontano, si prende sempre meno le responsabilità che gli competono. Io ho perso mio padre a 12 anni, ed ero troppo piccolo per capire che la morte è definitiva: solo verso i 30, 35 anni ho iniziato a riflettere su cosa rappresenti per me la figura paterna. Nella società d’oggi il padre non è più un modello, un riferimento: è soltanto un amico, a volte, dei figli. Una figura scadente e marginale. In questo film, il figlio piccolo soffre della separazione dei genitori, e non capisce niente. Nella classe di mio figlio, su 22 bambini, ben 20 hanno genitori separati. Capite che non è un caso, no?» (Vanity Fair, 20 novembre)