Le forze armate non vengono tenute pronte per l’impiego in caso di necessità ma hanno bisogno che non cessino le missioni oltremare per continuare a mantenere capacità operative
di Gianandrea Gaiani
Il finanziamento delle missioni militari oltremare per gli ultimi tre mesi dell’anno è in discussione in Parlamento tra le pressioni della maggioranza, l’opposizione della sinistra e l’ostruzionismo del Movimento 5 Stelle. Come sempre le operazioni internazionali affidate ai militari italiani sollevano un dibattito ideologico e ben poco pragmatico tra quanti evidenziano la necessità che l’Italia partecipi agli impegni militari decisi dagli organismi internazionali e un pacifismo tout-court che dietro le manifestazioni contro le missioni mal cela l’ostilità nei confronti delle forze armate.
L’attuale momento storico si presterebbe però a ben altre analisi sulle operazioni italiane oltremare tese a valutare il senso di un impegno che non persegue sempre gli interessi nazionali, spesso non è più motivato dal quadro strategico e comporta costi non più giustificati nell’attuale congiuntura economica. Sommando i due stanziamenti di quest’anno, per i primo nove mesi e gli ultimi tre del 2013, l’Italia spende 1,25 miliardi contro 1,4 nel 2012 e 1,55 l’anno precedente.
Un trend in leggero ma costante calo, proporzionale alla riduzione delle forze dislocate all’estero: in media 5.600 militari quest’anno contro i 6.750 dell’anno scorso e gli 8.200 del 2011. Un calo determinato soprattutto dalla drastica riduzione delle truppe in Afghanistan scese in 18 mesi da 4.200 effettivi ai meno di 2mila entro il mese prossimo. In questo teatro operativo, il più sanguinoso per l’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale, spendiamo quest’anno 572 milioni contro i 750 dell’anno scorso e gli 811 del 2011. Altre riduzioni, più limitate, hanno riguardato i caschi blu in Libano dove la spesa è attestata sui 160 milioni di quest’anno, cifra simile ai 157 dell’anno scorso ma più bassa rispetto ai 198 milioni del 2011.
Al di là delle cifre vale però la pena chiedersi il senso di queste missioni. In Libano il nostro contingente esprime un ruolo chiave nella forza dell’Onu (Unifil) schierata lungo il confine con Israele e guidata dal generale italiano Paolo Serra. Il rischio di finire coinvolti nella guerra siriana resta però elevato mentre il peso politico dell’Italia a Beirut è prossimo allo zero. Ha senso mantenere laggiù oltre mille soldati e una nave d guerra?
In Afghanistan la nostra missione ha perso ogni significato come l’ha perso del resto l’intera missione Nato. Da quando nel 2010 Barack Obama ha annunciato il ritiro delle truppe senza consultarsi prima con gli alleati europei, la guerra è perduta, gli Usa e il governo afghano tentano di negoziare con i talebani e oggi in molti ambienti anche vicini all’Alleanza Atlantica si ammette che i nemici contro i quali i soldati alleati combattono e muoiono da 12 anni avranno un ruolo di rilievo, se non di leadership, nel futuro Afghanistan.
Restare a Herat e Kabul non ha quindi più alcun senso né politico né militare. Eppure Italia e Germania hanno deciso di continuare a pagare “l’obolo” agli Stati Uniti confermando la presenza di contingenti limitati a 800 militari dediti ad addestrare e aiutare le forze afghane anche nel triennio 2015-17. Un nuovo impegno che ci costerà non meno di 300 milioni l’anno più altri 100 per il sostegno alle forze afghane all’interno di uno stanziamento complessivo di 4,1 miliardi annui per alimentare le truppe di Kabul.
Possiamo permettercelo? Ne vale la pena? No, a giudicare dalle sfide per la nostra economia e la nostra sicurezza apertesi sul fronte libico, e quindi nel cortile di casa. Impegni che richiedono ingenti forze navali per combattere i trafficanti di esseri umani e al tempo stesso soccorrere gli immigrati clandestini mentre un eventuale intervento internazionale in una Libia ormai fuori controllo vedrebbe l’Italia protagonista. Non solo per le implicazioni sugli interessi nazionali e in particolare sulle forniture di gas e petrolio bloccate in questi giorni dagli scontri tribali e dalla secessione della Cirenaica ma anche perché Washington ha chiesto espressamente a Roma di fare di più per stabilizzare la Libia e il premier Enrico Letta ha prontamente risposto “obbedisco”.
Superfluo sottolineare che se scoppia la Libia i nostri sforzi militari dovranno essere concentrati su questo fronte in cui il caos è stato portato dai nostri alleati della Nato (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) che hanno scatenato e imposto all’Italia la guerra contro Muammar Gheddafi nel 2011. La situazione finanziaria dell’Italia, unita alla crescente minaccia proveniente dalla Libia dovrebbero costituire ragioni sufficienti per richiamare i militari dislocati in Afghanistan, Libano e in un’altra ventina di Paesi dove operano però contingenti per lo più simbolici sotto le bandiere Ue, Nato e Onu.
Gli unici impegni da mantenere, perché hanno una diretta attinenza agli interessi nazionali, sono quelli in Kosovo, in Libia e nell’Oceano Indiano dove la Marina protegge i nostri mercantili dai pirati al costo quest’anno di 52 milioni di euro. Difficile però che l’attuale governo italiano, come il precedente prono davanti agli ordini di Washington in politica estera (e di Berlino per economia e finanza), abbia l’autorevolezza di prendere atto della situazione e tagliare gli impegni oltremare e non saranno certo le Forze Armate a fare pressioni in tal senso nonostante l’evidente carenza di risorse che caratterizza il nostro apparato militare.
I fondi per le missioni, stanziati ad hoc dalla Presidenza del consiglio, sono legati da un rapporto perverso alle Forze Armate poiché risultano indispensabili a garantire addestramento al combattimento alle forze destinate ad essere dislocate oltremare. Senza i fondi per le missioni le scarse risorse destinate ad addestramento e manutenzioni del Bilancio della Difesa non consentirebbero di effettuare nessuna attività significativa.
Con un paradosso tutto italico le forze armate non vengono tenute pronte per l’impiego in caso di necessità ma hanno invece bisogno che non cessino le missioni oltremare per continuare a mantenere un minimo di capacità operative e quindi per legittimare la loro esistenza attraverso quelle che ancora chiamiamo “missioni di pace”.
FONTE: http://lanuovabq.it/it/articoli-missioni-italiane-allestero-e-ora-di-cambiare-7755.htm