Massimiliano Tresoldi ama la vita, soprattutto dopo dieci anni di coma. La storia in un libro “E adesso vado al Max”.
Massimiliano Tresoldi è vivo. Lo è sempre stato, anche quando in nessun modo riusciva a mettersi in contatto con i suoi cari per via dello stato comatoso. Sembra ridondante doverlo dire, sembra una ovvietà, specie a sua madre che per dieci anni lo ha accudito e forse grazie a questo “effetto mamma”, lo aiutato a risvegliarsi. Lo ripetiamo perché qualcuno di recente lo ha messo in dubbio.
«Rivolgo un appello pubblico a mia mamma. Se dovesse accadermi quello che è accaduto a Max, mamma ti prego non fare come la mamma di Max. Quella non è vita (…) tornare in vita senza essere più libero, indipendente, soffrire avere quello sguardo vuoto, mi dispiace…». Queste parole, superficiali e offensive, sono state pronunciate da Alda D'Eusanio ospite alla trasmissione pomeridiana di Rai Uno “La vita in diretta”. (Famiglia Cristiana, 6 novembre).
Sinceramente non ci va di soffermarci sulle dichiarazioni della D'Eusanio che non sono piaciute al pubblico e ai conduttori, almeno quanto non sono piaciute alla mamma di Massimiliano, la signora Lucreazia che ha risposto nei pochi attimi che la Rai ha deciso di dedicare alla bella storia di Massimiliano: «Voglio dire a quella signora che io non ho riportato in vita mio figlio, mio figlio è sempre stato in vita. E la sua vita è bella così com’è».
Mamma Lucrezia non ha mai creduto ai medici che davano per spacciato il figlio “non c'è più nulla da fare” se lo è sentito ripetere più volte dopo l'incidente che ha messo Max in coma e ora lo ha lasciato in carrozzina, impossibilitato a parlare, ma vigile, capace di capire e di farsi capire. Nella lotta per assicurare al figlio le cure non teme conseguenze, come racconta nel libro “E adesso vado al Max! Vita di Massimiliano Tresoldi, 10 anni di 'coma' e ritorno” (Ancora editrice, 15 euro) in cui racconta l'angoscia e la lotta anche col malcostume dei medici che si occupano del figlio. Lo racconta quando la visita della squadra del cuore di Max lo fa finire sui giornali, e l'atteggiamento in reparto cambia: “Quel lunedì vado in ospedale alla mattina senza avere letto i giornali. Quando arrivano i medici – e stavolta con loro c’è il primario – mi chiedono come sia riuscita ad avere quegli articoli. È un lampo: non penso, non ragiono, la risposta esce senza esitazioni: «Il direttore del “Corriere della Sera” è mio fratello». Ho pronunciato una specie di frase magica, come capirò presto: i medici sembra s’impegnino di più e mettono a disposizione di Max addirittura due fisioterapiste per iniziare il lavoro di recupero”
Ma quello che è più conta è il differente approccio: il professionista contro la madre: “I medici parlano sempre e solo di quadro clinico, ripetendo che mio figlio non dà minimi segni di coscienza. Io continuo ossessivamente a pensare cos’altro si possa fare per aiutarlo: non riesco a credere che niente sia in grado di tirarlo fuori da quel «sonno». Non mi rassegno. Non mi rassegnerò mai. Chiedo al dottor Romanazzi. La sua risposta, vedendomi disperata, è di non preoccuparmi: «Abbiamo avuto altri casi come Massimiliano, qualcuno è riuscito a svegliarsi e rimettersi in piedi, persino riprendere il proprio lavoro». Poi poggia una mano sulla mia spalla: «Lei continui a sperare, a parlare con lui». Lo so, lo faccio. Ma sentirmelo dire da un neurologo ha l’effetto di una sferzata, di una marcia in più, qualcosa in cui poter credere”
“«Vuole veramente bene a suo figlio? Allora se lo porti a casa». Forse è quel che volevo sentirmi dire. Uscendo provo una gioia nuova.” Così la forza per portare il figlio a casa e occuparsi di lui come all'ospedale, dove era un numero, non sapevano più fare. Ecco allora parlare con lui, farlo mangiare, accudirlo, essere presenti, lentamente permette l'interazione. Con i genitori, i fratelli, gli amici. Sempre attorno a lui, 365 giorni all'anno per 10 anni. Scriverà Max, dopo il risveglio “Sentivo tutto, vedevo tutto, solo non sapevo come comunicare con voi”. E questo dovrebbe dirci molto sulla nostra presunzione di comprendere queste situazioni al limite e di giudicarle con leggerezza.