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Quali sono le sfide pastorali della famiglia oggi?

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Alfa y Omega - pubblicato il 05/11/13
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La grande sfida è la paura dell’impegno, afferma il relatore generale del prossimo Sinodo sulla famiglia, il cardinale Péter ErdődiRicardo Benjumea

“Ci sono una paura generale e una profonda sfiducia verso le istituzioni, anche verso il matrimonio e la famiglia”, ha sottolineato il relatore generale del prossimo Sinodo sulla famiglia, il cardinale Péter Erdő. “Se 30 anni fa il Magistero si occupava del problema dei divorziati risposati civilmente, oggi il problema più grave è un altro: che la maggior parte delle coppie che vivono insieme non è sposata”.

In questa intervista pubblicata da Alfa y Omega, l’arcivescovo di Budapest parla delle sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione, tema della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, che avrà luogo nell’ottobre 2014. A questo Sinodo straordinario seguirà nel 2015 un’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo, sempre dedicata alla famiglia, anche se centrata soprattutto su questioni di tipo antropologico.

Il papa l’ha nominata relatore generale del prossimo Sinodo dei vescovi. Sarà affrontato il tema dell’istituzione stessa del Sinodo, in quella prospettiva di maggior sinodalità che vuole promuovere il Santo Padre?

Cardinale Péter Erdő: Il Sinodo straordinario che il papa ha convocato per l’ottobre 2014 si occuperà delle sfide della famiglia nel contesto della nuova evangelizzazione. Sarà unito nella sua tematica al Sinodo ordinario previsto per il 2015, anche se l’accento di questo secondo Sinodo sulla famiglia sarà posto sugli aspetti antropologici, una questione assai profonda e di grande attualità.

Quali sono queste sfide antropologiche, e collegate alla nuova evangelizzazione, che affronta la famiglia?

Cardinale Péter Erdő: L’istituzione familiare soffre una grave crisi da molti decenni. Per questo Giovanni Paolo II si è occupato tanto della famiglia. Ha pubblicato l’Esortazione apostolica post-sinodale Familiaris consortio, e c’è la Carta dei Diritti della Famiglia, del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Ci sono state varie dichiarazioni pontificie nel corso degli ultimi decenni, perché si vedeva che la famiglia è in crisi.

Oggi abbiamo il dovere di sottolineare l’importanza teologica della famiglia, soprattutto nel piano della creazione. La questione è se la natura abbia o meno realmente aspetti con effetto normativo per il nostro comportamento umano, leggi morali che derivano da questa natura. Siamo eredi della convinzione che esista un invito divino inscritto nella natura. Crediamo nella natura creata da un solo Dio, creatore del cielo e della terra. Per noi, la natura è una manifestazione della volontà divina, per dirlo con le parole del grande autore spagnolo Francisco Suárez.

Negli ultimi vent’anni la famiglia affronta sfide nuove rispetto agli anni Sessanta o Settanta. Da un lato la gente inizia ad aver paura di tutte le istituzioni, statali, ecclesiastiche, sociali… e ci sono cambiamenti nella legislazione di vari Paesi riguardo al matrimonio e alla famiglia. Si includerebbero qui aspetti antropologici che forse saranno approfonditi nel secondo Sinodo su questo tema.

Se 30 anni fa [nel Sinodo del 1980 sulla famiglia cristiana, ndr] il Magistero si occupava del problema dei divorziati risposati civilmente, oggi il problema più grave è un altro: che la maggior parte delle coppie che vivono insieme non è sposata, neanche civilmente.

Sarà interessante ciò che diranno su questo le Conferenze Episcopali. In alcuni luoghi, la metà delle coppie di mezza età che convivono non è sposata, e tra i giovani la percentuale arriva all’80%. È una realtà rilevante a livello pastorale; anche tra i cattolici praticanti ci sono coppie che vivono così.

Cardinale Péter Erdő: C’è sicuramente paura dell’impegno definitivo, non solo nel matrimonio, o nella vocazione sacerdotale, ma anche nella scelta di una professione.

Quando ero rettore dell’Università Cattolica di Budapest ho visto che centinaia di studenti ogni anno volevano cambiare facoltà. Avevano studiato tre o quattro anni per laurearsi in Storia e poi decidevano che volevano passare a Informatica. Ci sono una grande insicurezza e la paura di avere un’occupazione stabile, definitiva.

Ci sono una paura generale e una profonda sfiducia verso le istituzioni, anche verso il matrimonio e la famiglia. Questo ha un altro tipo di conseguenze. Ad esempio, esiste una correlazione tra nuzialità e nascite. A livello statistico, le coppie che vivono insieme senza sposarsi hanno meno figli di quelle sposate. Il matrimonio, quindi, esprime un maggior desiderio di stabilità e sicurezza e la predisposizione ad accettare i figli.

Di fronte a situazioni come quella dei divorziati con nuove unioni, si pone sempre il dibattito su come conciliare verità e misericordia…

Cardinale Péter Erdő: In primo luogo bisogna chiarire che la misericordia, sia nel senso ebraico che in quello cristiano del termine, non è contraria alla verità. Le due espressioni che spesso si trovano nei Salmi e nell’Antico Testamento sono giustizia e misericordia, che non sono contrarie. Entrambe sono attributi di Dio. Nel Nuovo Testamento si parla di giustizia e misericordia, concetti ai quali ha fatto ricorso il Diritto canonico medievale per risolvere conflitti di interpretazione giuridica.

Oggi direi che la misericordia richiede da noi di dare più di ciò che dobbiamo, perdonare quando non siamo costretti, dedizione… Il perdono è un aspetto fondamentale della misericordia, soprattutto in società in cui l’ethos comune è ferito, in cui c’è una polarizzazione… In questo contesto, l’aspetto della misericordia richiede una nuova urgenza per la riconciliazione.

A Madrid lei ha parlato delle conferenze episcopali alla luce del Concilio Vaticano II. Che ruolo crede che siano chiamate ad avere in quella maggiore sinodalità che il papa vuole promuovere?

Cardinale Péter Erdő: Il Concilio Vaticano II parla con un accento speciale della collegialità. Il Collegio episcopale, secondo la formula adottata dal Codice di Diritto Canonico, ha il potere supremo pieno e universale in tutta la Chiesa, ma il Collegio episcopale non è completo senza la sua testa, il papa, e può procedere solo con il consenso del Romano Pontefice, in unità con lui. Il Collegio episcopale e il Romano Pontefice, quindi, non sono due soggetti con suprema e piena potestà sulla Chiesa, ma un unico soggetto.

Per quanto riguarda le conferenze episcopali, è importante chiarire che non sono portatrici di tutte le competenze del Collegio episcopale, perché il Collegio è indivisibile.

Qual è la missione delle conferenze episcopali? In primo luogo manifestano la collegialità dei vescovi ed esprimono la missione di ogni vescovo, in modo individuale, nella Chiesa universale, perché il vescovo è pastore della propria Chiesa locale, ma allo stesso tempo ha una vocazione nella Chiesa universale.

In vari Paesi le conferenze episcopali nazionali esistevano già molto prima del Concilio, ma in seguito questa istituzione è stata prescritta per ogni Paese. Ogni Paese ha la propria situazione pastorale e le sue circostanze giuridiche, e le relazioni con lo Stato sono molto diverse. Per questo, è ragionevole che le conferenze episcopali si organizzino tenendo conto di questa realtà nazionale.

Per quanto riguarda la loro vocazione, la missione principale è la consultazione fraterna sui problemi pastorali. Non sono organi di potere di per sé, salvo qu
ando ricevono l’autorizzazione del Santo Padre, o del diritto universale della Chiesa, e assumono allora competenze di tipo legislativo, come può essere la negoziazione di un Concordato con il Governo del Paese.

La conferenza esercita anche una specie di magistero ecclesiastico. Non è un magistero universale, ma un magistero che può essere un esercizio congiunto del magistero individuale dei vescovi. Ad ogni modo, secondo la lettera apostolica Apostolos Suos, del 1998, quando c’è una maggioranza di due terzi dei vescovi della conferenza episcopale e una successiva revisione da parte della Santa Sede si possono fare dichiarazioni magisteriali per il proprio territorio.

È interessante vedere come nei primi secoli la funzione di insegnare e la disciplina non fossero separate in quella che si chiamava la tradizione apostolica. Nel funzionamento delle conferenze episcopali vediamo anche un segno dello strettissimo rapporto tra le funzioni del Governo ecclesiastico e la funzione magisteriale.

L’Ungheria ha appena firmato un trattato con la Santa Sede sul finanziamento dell’insegnamento. Che novità implica?

Cardinale Péter Erdő: Tra l’Ungheria e la Santa Sede esistono cinque Accordi parziali, tra i quali uno del 1997 su diverse questioni di finanziamento di attività della Chiesa di pubblica utilità. Questo Accordo è stato modificato in alcuni aspetti per via della nuova Costituzione e della nuova legislazione sulla libertà religiosa, che è stata modificata…

Migliorata?

Cardinale Péter Erdő: Modificata. Noi, come Chiesa, non possiamo pronunciarci al riguardo… I cambiamenti richiedevano tecnicamente aggiunte all’Accordo, e questo è ciò che è stato fatto. Alcune questioni vengono dal passato, ad esempio aspetti derivati dall’Accordo del 1964 della Santa Sede con l’Ungheria comunista.

Avevamo anche la restituzione di scuole confiscate – a determinate condizioni – da parte degli ultimi Governi. Ciò poneva il problema per la Chiesa di come mantenere questi centri, nel contesto della libertà di scelta dei genitori riconosciuta dal 1990. Sono dettagli importanti per la vita quotidiana e per il bene comune.

Come contribuisce al bene comune la Chiesa, attraverso l’insegnamento?

Cardinale Péter Erdő: Parlare di bene comune presuppone una profonda visione antropologica. Il funzionamento di qualsiasi Stato presuppone un minimo consenso sui valori antropologici generali. Come possiamo servire il bene comune se non decidiamo prima ciò che è buono, ad esempio che valore ha la vita umana, che cos’è la libertà e molto altro? C’è una base naturale per un consenso minimo sui valori. Ad ogni modo, quando qualche ideologia irrompe in questo ambito rende difficile che si possa trovare un minimo consenso, ma non bisogna lasciar morire la speranza di ritrovare un consenso, anche con quanti sono non credenti.

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