Abusi, rischi di rimpatrio, emergenza economica: l’instabilità politica dell’Egitto ha colpito più duramente proprio i più deboliSono i volti dimenticati della crisi egiziana. Hanno storie come quella di Moazez, 51 anni, che ai funzionari dell’Unhcr, l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, ha motivato così la fuga sua e dei familiari dalla Siria: “Non avevamo scelta”. Bombardamenti, mancanza di elettricità, fame, sono alcune delle esperienze che hanno spinto questa donna e almeno altri 126 mila siriani (tanti si sono ufficialmente rivolti all’Unhcr) a rifugiarsi in Egitto. Ma anche qui, spesso, le loro speranze sono state deluse.
All’inizio del conflitto tra le truppe di Damasco e i ribelli, le autorità del Cairo avevano dato aiuto ai fuggiaschi: per entrare nel Paese non c’erano difficoltà burocratiche e col permesso di soggiorno si potevano utilizzare i servizi pubblici. Gli scontri tra i sostenitori del presidente deposto Mohammed Morsi e l’esercito, che ha appoggiato la creazione delle attuali istituzioni ad interim, però, hanno cambiato il clima in Egitto. Alla fine di luglio la portavoce dell’Unhcr, Melissa Fleming, spiegava che molti siriani avevano paura “di essere arrestati se si fossero mostrati in pubblico”.
Siriani e palestinesi, infatti, erano considerati fiancheggiatori dei Fratelli Musulmani; molti, si diceva, avevano partecipato alle dimostrazioni pro-Morsi. E l’instabilità ha scatenato anche sentimenti xenofobi: proprio le discriminazioni quotidiane hanno spinto molti profughi a registrarsi presso le Nazioni Unite per ricevere assistenza. Non sono mancate, infine, difficoltà legali come le restrizioni sui visti, e casi di detenzione arbitraria che hanno preoccupato l’Onu.
A confermare i timori sono state, negli ultimi mesi, Human Rights Watch, Amnesty International e la Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo (Fidh): decine di segnalazioni hanno riguardato siriani detenuti nelle stazioni di polizia, in condizioni durissime, con l’accusa di “migrazione illegale”. In un caso le autorità sono state accusate di aver costretto a tornare in porto – usando anche armi da fuoco – un barcone partito da Alessandria e diretto in Europa. Espulsioni e rimpatri forzati verso la Siria in guerra, poi, avrebbero coinvolto anche persone con diritto alla protezione umanitaria e persino bambini, separati dalle loro famiglie.
Il ministero degli Esteri egiziano ha negato tutte le accuse, comprese quelle sulle deportazioni, sostenendo che misure “di legge” sono state prese solo per “singoli casi” di persone coinvolte “in proteste armate o atti di violenza”. Spesso preoccupano, però, anche le condizioni di chi resta libero, ma condannato di fatto alla marginalità, come i migranti dell’Africa subsahariana.
A differenza dei siriani, chi arriva dal Corno d’Africa o da Sudan e Sud Sudan non ha la possibilità di ricevere istruzione o assistenza sanitaria nelle strutture locali; a dirlo è padre Jemil Araya, un sacerdote comboniano eritreo che, con altri confratelli, assiste i migranti africani in varie comunità del Cairo. Il loro problema principale non sono i rapporti con gli egiziani: “cambiano da luogo a luogo e da persona a persona; c’è chi subisce abusi e insulti, ma anche chi vive esperienze positive”, testimonia padre Araya. La difficoltà è, piuttosto, quella di trovare una casa e un impiego: “Dopo la rivoluzione del 2011 – racconta il missionario ad Aleteia – tanti di quelli che potevano offrire lavoro hanno abbandonato il Paese” lasciando molti migranti, soprattutto donne, senza lavoro e “senza la possibilità di provvedere alle necessità familiari”.
Di fronte a questa situazione, oltre che a fornire aiuto umanitario diretto, i comboniani cercano di migliorare, con l’istruzione, le condizioni dei più giovani. “Nelle nostre scuole seguiamo il curriculum sudanese – spiega il sacerdote eritreo – in modo che chi arriva dall’Africa subsahariana possa frequentarle”: un servizio che si è rivelato indispensabile per l’integrazione. “Vari nostri ex-allievi, che hanno finito le scuole secondarie”, nota infatti padre Araya, “oggi studiano nelle università egiziane”.
Aiutare i migranti a sentirsi parte della collettività è anche lo spirito che guida la pastorale missionaria: “nelle nostre chiese cerchiamo di creare l’atmosfera di una parrocchia”, continua il religioso, “per dare forza alla comunità”. Un compito, questo, che non può fermarsi mai, perché, riconosce il sacerdote, sono ancora tante le difficoltà quotidiane incontrate da chi arriva in Egitto da sud. Molti, quindi, appena possibile, cercano “un’altra strada”, conclude padre Araya: per loro l’Egitto non diventa “un punto d’approdo”, ma solo l’ennesima tappa di un viaggio lungo e pericoloso.