A Montecitorio il 5 novembre la presentazione del Comitato “Di mamma ce n’è una sola” contro l’utero in affitto
Un comitato per un’opera di sensibilizzazione, di denuncia e di contrasto al fenomeno della «maternità su commissione»: si chiama "Di mamma ce n’è una sola" e verrà presentato il 5 novembre a Montecitorio. La nuova iniziativa verrà presentata da Eugenia Roccella, vicepresidente della commissione Affari sociali della Camera e Presidente del comitato, da Olimpia Tarzia, presidente del Movimento Per (Politica, etica e responsabilità) e coordinatore nazionale del comitato, Assuntina Morresi, docente di Chimica fisica presso l’Università di Perugia, Francesca Romana Poleggi, direttore editoriale Notizie Pro Vita e Francesco Agnoli, saggista.
Il fenomeno della maternità attraverso un’altra donna che porta fisicamente avanti la gravidanza presenta aspetti spesso poco conosciuti o cui a volte si preferisce colpevolmente non pensare. «Utero in affitto, gestazione conto terzi, maternità surrogata: sono diverse le espressioni che raccontano un fenomeno in espansione in tutto il mondo: quello di donne, generalmente indigenti e molto spesso analfabete, che, a pagamento, affrontano una gravidanza e un parto sapendo che poi cederanno il neonato a qualcuno che glielo ha commissionato, più o meno legalmente», sostengono i promotori del Comitato. «Su questa materia mancano leggi e regolamenti fra paesi e continenti e si producono numerosi contenziosi giuridici, perchè difficilmente tutti gli attori di questo percorso si trovano nello stesso stato. Non di rado – concludono i promotori dell’iniziativa – il risultato del puzzle di persone e nazioni coinvolte è un bambino legalmente orfano e apolide» (Avvenire 2 novembre).
Di solito, nell’affrontare queste fenomeno si punta l’attenzione sulla legittimità o meno del desiderio della coppia di avere un figlio; si riflette di meno sugli aspetti coinvolti relativi all’autodeterminazione della donna che si presta a partorire un figlio che non sarà suo e della dignità del corpo femminile. "Mi meraviglia – ha detto Eugenia Roccella in un’intervista ad Aleteia (9 maggio 2013) che le femministe oggi non insorgano, tranne poche, come l’associazione internazionale di cui faccio parte e che si chiama “Giù le mani dalle nostre ovaie”, contro un mercato del corpo femminile che tra l’altro lo scompone, ne usa dei pezzi per la procreazione assistita e alcune tecniche specifiche di fecondazione in vitro e cerca di dissociare questi “pezzi”. Se una coppia gay, per esempio, vuole un figlio con la procreazione assistita, in genere prende gli ovociti da una donna e l’utero in affitto da un’altra così non c’è una mamma unica ma uno spezzettamento delle componenti della maternità. Tutto questo crea un mercato che è di profondo sfruttamento nei confronti del corpo femminile. A volte di sfruttamento bieco come avviene con giovani donne povere perché quelle che “donano”, in realtà vendono, gli ovociti, sono donne giovanissime, studentesse povere che in America lo fanno per pagarsi gli studi o dei paesi dell’est Europa che hanno bisogno di soldi. Con episodi gravissimi: qualche mese fa è morta una ragazzina diciassettenne indiana che aveva fatto già tre volte il trattamento ormonale per vendere i propri ovociti. Ci sono situazioni molto pesanti che però le donne del mondo occidentale ricco sembrano ignorare: bisogna esserne consapevoli perché un diritto non può essere a spese di qualcun altro".
E, infatti, nei Paesi dove il fenomeno si sta allargando in misura allarmante, almeno dal punto di vista giuridico ci si comincia ad organizzare: "La regolamentazione della maternità surrogata, già più volte oggetto di restrizioni messe in atto contro il sempre crescente numero di coppie etero e omosessuali che scelgono l’India come fucina di figli su misura (da inizio anno un giro di vite ha riguardato in particolare il mercato ufficiale delle maternità surrogate per le coppie gay), è divenuta il compito della neonata Instar, la Società indiana per la riproduzione assistita. L’Instar raccoglie esperti di infertilità, embriologi e giuristi che intendono darsi regole condivise per il rispetto e il benessere delle madri surrogate, preso atto che ormai quella delle mamme a noleggio è diventata una vera e propria industria nazionale. Il presidente di Instar, Himanshu Bavishi, ha dichiarato che nel recente convegno scientifico tenuto dal neonato istituto è stato stabilito un salario minimo per le donne che affittano il proprio utero e un rimborso per le famiglie di quelle che muoiono per complicazioni legate alla maternità. Indennizzi sono previsti anche per coloro che dovessero essere sottoposte a isterectomia o asportazione delle tube" (Avvenire 31 ottobre, riprendendo degli articoli di Times of India).
Fenomeni analoghi interessano donne delle campagne povere del Marocco (Avvenire 19 agosto), della Cina, del Vietnam, della Thailandia (Avvenire 13 agosto) così come di Panama o Guatemala (Avvenire 8 agosto) oppure di Russia e Ucraina (Avvenire 7 agosto).
Davvero una donna può accettare di avere un figlio tramite un’altra senza nessuna ripercussione per la propria integrità psichica e la propria vita? E la donna che porta avanti una gestazione per nove mesi può considerarlo semplicemente un lavoro, per quanto possa essere spinta dalla disperazione di condizioni economiche precarie? "Il dolore di una donna che vorrebbe essere madre e non ci riesce – spiega la psicoterapeuta Giuliana Mieli – va rispettato, compreso e il più possibile lenito. Ma l’egoismo di chi trasforma la realizzazione del proprio sogno nell’incubo di un altro non va sottoscritto né sostenuto". Si può avere un’idea delle dinamiche che vengono poste in atto guardando al caso delle donne che hanno deciso di portare avanti una gravidanza ma di dare poi il figlio in adozione. "Sono esperienze da cui si esce davastate anche se fin dall’inizio si è consapevoli di quel che succederà dopo il parto e lo si è deciso in totale autonomia, senza costrizioni" afferma Mieli secondo la quale "sono certa che la condizione emotiva ed emozionale in cui si vengono a trovare sia identica". Forse peggio. "Perché il figlio che avevano in grembo non lo hanno ceduto. Lo hanno venduto: «Una ferita che segna entrambe le donne. E la loro creatura che aveva diritto a un concepimento fondato sull’amore»" (Avvenire 14 agosto).