De Masi: “un invito alla Chiesa ad esercitare sempre di più il suo ruolo per la salvezza del territorio e di chi lo abita”
Segnato "più ombre che da luci": viene descritto così il rapporto chiesa-mafia nel libro "Acqua santissima. La Chiesa e la ’ndrangheta: storie di potere, silenzi e assoluzioni" scritto dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri – uno dei magistrati di punta della lotta alla ‘ndrangheta – e dallo storico Antonio Nicaso. "Molte citazioni, sicuramente dure, di storie certo non positive di questo rapporto. Vicende ben note come i condizionamenti delle feste religiose, lo stravolgimento di matrimoni e funerali, i giuramenti col santino di San Michele Arcangelo, la convinzione dei mafiosi di essere giustificati davanti a Dio, fino al punto di chiedere alla Madonna di Polsi, il più famoso santuario calabrese, l’intercessione per poter uscire dal carcere" (Avvenire 29 ottobre). Pochi e isolati, per gli autori, gli esempi positivi come quello di don Pino De Masi, parroco di Polistena (Rc) e coordinatore in Calabria dell’Associazione contro le mafie Libera.
Un insieme di luci e ombre: si può definire davvero così il rapporto tra Chiesa e mafia?
De Masi: Si può dire che fino agli anni ’70 nel rapporto tra Chiesa e mafia abbiano prevalso le ombre, ma dopo sono state senz’altro le luci a prevalere. Mancava la consapevolezza del problema sia nella società civile che nella Chiesa. Non dobbiamo dimenticare che il cardinale di Palermo Ruffini disse, in buona fede, che la mafia era un’invenzione dei comunisti per ostacolare la democrazia cristiana. E’ dal 1975 che comincia a maturare sia nella Chiesa che nella società la convinzione che la mafia blocca la dignità della persona ed ignorare questa realtà è un peccato sociale.
C’è una specificità della ‘ndrangheta nell’appropriarsi dei simboli e delle pratiche religiose?
De Masi: La ‘ndrangheta è un sistema familistico e questo la rende peculiare. Il suo obiettivo è la ricchezza e per conseguirla ha bisogno di consenso, per cui tutto ciò che può servire per ottenere consenso viene utilizzato. La volontà di appropriarsi dei gesti religiosi è in questa prospettiva. La ‘ndrangheta ha utilizzato le feste religiose per costruire consenso sociale e imporre vincoli. Come Chiesa non abbiamo prestato abbastanza attenzione a questo fenomeno ma la situazione di oggi non è la stessa di 30 anni fa. Il santuario della Madonna di Polsi, conosciuto come luogo di incontro dei mafiosi, è prima di tutto un luogo di fede e attraverso una serie di pronunce e di scelte dei vescovi che si sono succeduti si è cercato di ristabilire questa realtà.
Quando si è arrivati alla consapevolezza sul fenomeno della ‘ndrangheta?
De Masi: dagli anni ’70 si è avuta una successioni di interventi e di denunce da parte dell’episcopato; poi nel 1975 in primo documento forte in Calabria che denominava "cancro" la mafia. Dagli anni ’90 i vescovi calabresi hanno cercato di abbozzare una linea pastorale di risposta al fenomeno fondata sui tre famosi verbi di don Tonino Bello: "annunciare, denunciare, rinunciare". I vescovi partivano dalla constatazione che più pericolosa della mafia stessa è la mafiosità che porta nelle istituzioni all’accomodamento e alla corruzione. Per questo è necessario l’annuncio del Vangelo sine glossa attraverso la testimonianza di vita insieme alla denuncia del pericolo costituito da mafia e mafiosità. Tutto ciò, per essere credibile, comporta anche per la Chiesa delle rinunce: all’attaccamento ai soldi e al potere, alla connivenza con i potenti di turno.
Perchè riprendere questa analisi del rapporto tra chiesa e mafia?
De Masi: Io colgo un aspetto positivo che è quello di spronare la Chiesa ad esercitare sempre più il suo ruolo. La gente si aspetta molto dalla Chiesa perchè ha fiducia nella sua capacità di oppore il bene al male e di salvare dal male questo territorio e chi lo abita. Non amo molto l’etichetta di prete antimafia. Credo che tutti, come popolo di Dio, abbiamo bisogno di conversione e di lavorare insieme per sconfiggere la mafia nel vissuto della vita quotidiana. Essere cristiani – oltre a non appartenere a delle cosche mafiose che dò per scontato – significa anche non cedere alla mafiosità nei comportamenti, nelle collusioni. E’ quella che io chiamo "l’antimafia del giorno prima", cioè l’impegno all’onestà, alla correttezza, alla legalità nella propria vita ed è l’antimafia più potente.
E come Chiesa quali atteggiamenti sono necessari?
De Masi: Occorre porre dei segni, il primo dei quali è la libertà dal denaro e seri cammini di catechesi. Soprattutto occorre camminare insieme ai giovani perchè rinuncino al fascino del potere mafioso e restino qui nella loro terra per essere protagonisti del cambiamento. Le cooperative come quella della Valle del Marro sulla terra confiscata alle cosche, fortemente incoraggiate dalla Chiesa, hanno vinto la scommessa di dimostrare che è possibile vivere in Calabria lavorando onestamente e facendo onestamente impresa e questo fatto rappresenta una specie di "bomba" per il territorio. Ci sono pile di curriculum di giovani che vogliono lavorare per la cooperativa e non è solo effetto della crisi. La Chiesa è segno e strumento di liberazione nella storia. Sono ormai maturi i tempi, inoltre, per intervenire sulla conversione dei mafiosi: anche a loro va annunciato il Vangelo perchè cambino vita. Non significa svendere conversioni a basso prezzo: il modello è quello della conversione di Zaccheo che restituisce quello che ha rubato, anzi di più. E’ un’attenzione che poniamo per prima verso i figli dei mafiosi per far capire loro che la strada che hanno davanti è sbagliata e attraverso loro arrivare ai padri. C’è tanto lavoro da fare per la Chiesa. Don Italo Calabrò, il primo direttore della Caritas di Reggio Calabria e tra i fondatori della Caritas nazionale, cui devo molte delle mie scelte, diceva che "nel coraggio dei pastori, la gente ritrova il proprio coraggio". E’ questo il nostro compito.