L’ideale di una economia legata profondamente alla comunità in cui opera e con la quale deve condividere gli utili è un insegnamento che sarebbe utile riscoprire
C'è voluta una fiction per far parlare all'Italia intera di uno dei suoi migliori talenti: Adriano Olivetti. Lo spunto è dunque un'opera in due parti, andata in onda su Rai Uno con un sempre bravo Luca Zingaretti nelle vesti dell'imprenditore di Ivrea e con la regia di Sergio Soave. Se la sceneggiatura è (a volte) un po' melensa e sterotipata.
Dopo aver visto il film, la figlia Laura Olivetti, oggi presidente della Fondazione Olivetti, ha commentato: «La trama è molto romanzata, procede anche un po’ per stereotipi: l’amico che tradisce, l’imprenditore antagonista. Ma riprende elementi reali della vita di mio padre e resta fedele allo spirito delle vicende. Si vede che la regia è fatta con amore». (Lettera 43, 27 ottobre).
Tuttavia quello che ci interessa è il messaggio che ci aiuta a conoscere: un'altra economia è possibile. Nessuno slogan terzomondista, nessuna rivoluzione, ma la lucidità di un imprenditore che sa che la fabbrica, l'azienda, vive in un tessuto vivente, crea e incide sulla comunità che la accoglie. L'essere comunità indica a cifra e la fatica di un lavoro collettivo che mai azzera l'umanità di ciascuno. Un modello economico-capitalistico, quello di Adriano Olivetti, fatto di socializzazione dei profitti, ma non di statizzazione. Oggi la chiamiamo (o la chiameremmo) “Economia Civile”, vicina all'economia del Terzo Settore, che tuttavia non raggiunge mai le dimensioni della multinazionale.
Luigino Bruni su Avvenire la descrive così: “Quella di Olivetti era semplicemente l’economia italiana, cioè l’erede dell’economia dei Comuni, dell’Umanesimo civile, degli artigiani artisti, dei cooperatori… La "terza via" di Olivetti era troppo italiana per poter essere riconosciuta dagli italiani, perché metteva a reddito, in piena post-modernità, i tratti tipici e migliori della nostra vocazione: creatività, intelligenza, comunità, relazioni, territori. Uno "spirito del capitalismo" italiano, ed europeo, quindi diverso da quello americano che stava già dominando il mondo, dove il sociale inizia quando si esce dai cancelli dell’impresa e l’imprenditore crea la fondazione filantropica "per" i poveri. Il capitalismo di Olivetti si occupava del sociale e dei poveri durante l’attività d’impresa. È l’inclusione produttiva è una delle parole-chiave dell’umanesimo olivettiano, una parola ancora oggi tutta da esplorare” (Avvenire, 29 ottobre).
''Adriano – racconta Valerio Ochetto nel libro 'Adriano Olivetti. La biografia' (Edizioni di Comunità) – vede la fabbrica come un organismo vivente, che ha una infanzia, una giovinezza, una maturità, e che volgerebbe al tramonto se non si trasformasse continuamente in qualcosa di nuovo''. Da essa viene lo stimolo per una riforma globale. ''Il fine – spiega ancora – e' molto ambizioso: conciliare l'uomo e la macchina, il problema sul quale si sono cimentati dalla prima rivoluzione industriale in poi utopisti, ideologi, politici''. Non c'è una ricetta ma l'idea proposta da Olivetti per superare la contrapposizione fra capitalismo privato e collettivismo è ''socializzare senza statizzare'' (Ansa, 29 ottobre).
Una idea non utilitaristica dell'uomo, un progetto di umanesimo che mette al centro dell'azione economica il valore sociale della comunità, da garantire e preservare, un esempio e uno stimolo per tutti noi.