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Avviso Pubblico, la buona politica che mette in crisi le mafie

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Simone Sereni - Aleteia Team - pubblicato il 24/10/13
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Mentre la politica dei partiti litiga sulla commissione antimafia, la rete degli amministratori pubblici per la legalità celebra la sua quinta festa nazionaleDopo più di 7 mesi, a Roma, la commissione parlamentare antimafia si è finalmente formata e ha eletto un presidente, l’onorevole Rosy Bindi del Partito democratico. Un’elezione molto contestata. La lotta alla legalità diventa l’ennesimo set per un film già visto: la guerra di posizione tra i partiti, apparentemente molto lontani dal mettere tra le priorità il futuro del Paese e il bene comune.

Lontanissimi anche da Reggio Calabria, dove lunedì scorso “si è aperto il processo per il gravissimo danneggiamento subito circa due anni fa” ai danni dell’uliveto dei “giovani della cooperativa Valle del Marro, costituita dalla diocesi di Oppido-Palmi e da Libera per gestire beni confiscati alle cosche della Piana di Gioia Tauro”. Alla sbarra “uno dei più noti boss della ’ndrangheta, Saverio Mammoliti, l’ex proprietario di quell’uliveto”. Un processo simbolo, in cui però i giovani, che si sono costituiti parte civile sfidando tutto e tutti, sono stati lasciati soli.

Perché non si sono costituite parte civile “le parti offese istituzionali”: il comune di Oppido, proprietario del terreno dopo la confisca e l’assegnazione, il ministero dell’Economia e quello della Giustizia” (Avvenire, 23 ottobre).

“Si tratta di comportamenti che indeboliscono la lotta alle mafie, che minano sensibilmente la credibilità delle istituzioni”. Così, in una nota, l’associazione Avviso Pubblico, la rete degli enti locali che dal 1996 lavora per collegare ed organizzare gli amministratori pubblici che concretamente si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica nella politica, nella Pubblica amministrazione e sui territori da essi governati.

Pierpaolo Romani è il coordinatore nazionale della rete che con i suoi 240 enti locali associati il 25 e il 26 ottobre celebrerà a Lamezia Terme, comune simbolo, la quinta festa nazionale intitolata “Amministratori sotto tiro. La buona politica contro le mafie”. Una particolare attenzione sarà posta al tema della sicurezza degli amministratori locali.

Romani: “Abbiamo scelto la Calabria perché resta la regione col maggior numero di denunce per minacce e intimidazioni ad amministratori pubblici, la maggior parte dei quali è colpita perché si occupa del bene comune”.

Le piace l’espressione “sindaci antimafia”?

Romani: “Quella di questi amministratori locali è la buona politica che contrasta la mafia. I sindaci antimafia, se vogliamo, non esistono: esistono solo tanti bravi amministratori, e funzionari e dipendenti degli enti locali, che credono nel rispetto delle leggi e si impegnano per questo”.

Tra le vostre attività e iniziative c’è anche il gruppo di lavoro sugli “indicatori di legalità”. Ce ne parla?

Romani: “Nasce dall’esperienza del Comune di Corsico (MI) che, mettendo insieme dati e competenze dei vari uffici che prima lavoravano a compartimenti stagni, ha costruito un database e una serie di indicatori: si incrociano i dati per individuare situazioni a rischio di criminalità mafiosa, segnalate con tre livelli diversi “basso”, “medio” e “alto”. Sulla base di questi dati è l’amministrazione pubblica che procede con i suoi strumenti e poi segnala alle autorità – magistratura o forze dell’ordine – e non viceversa come avviene di solito, le situazioni da mettere sotto controllo. Con questo sistema, che vogliamo promuovere perché è la migliore forma di controllo del territorio, sono stati recuperati in un anno circa 60 mila euro.

Infine, qual è la vostra lettura sull'impasse sulla commissione antimafia? Alcuni si chiedono anche a cosa serva un commissione di politici che controlla la politica…

Romani: “La commissione è nata nei primi anni Sessanta per comprendere e analizzare le causa della genesi e dello sviluppo delle mafie, i loro rapporti con il mondo della politica, dell’economia, delle professioni e delle istituzioni. Se non ci fosse stata la commissione non avremmo avuto la relazione di minoranza di Pio La Torre alla fine degli anni Settanta grazie alla quale è stato introdotto nel codice penale italiano l’art. 416-bis, vale a dire il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso; e poi la relazione Forgione del 2008, la prima in atti ufficiali sulla ‘Ndrangheta. Il problema è che il Parlamento non è mai arrivato a discutere come previsto dalla legge le relazioni finali di questa commissione”.

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