Il papa «venuto dalla fine del mondo» è missionario a Roma, nel cuore stesso della cristianità. E siamo noi, stavolta, a dover ricevere e impararedi Roberto Beretta
In questi dintorni della Giornata missionaria mondiale, mi vien da pensare che uno dei segni maggiori di com'è cambiata la missione in questi anni sia proprio l'ascesa al soglio di Papa Francesco. Sì, il papa che si è definito "venuto dalla fine del mondo", lo è davvero: è il primo Pontefice non europeo del secondo millennio, il primo che – aspettando il papa nero o quello che andrà a vivere nelle baraccopoli di Manila – viene da terre tradizionalmente "di missione".
E si vede. Guardate l'approccio semplice alla gente, la mancanza di formalismo totale: è la stessa che troviamo nei missionari italiani in America Latina o in Africa, quando tornano a casa e non si raccapezzano più nelle nostre comunità zeppe di tradizioni e di sovrastrutture. Guardate il tipo di dialogo impostato con tutti, la stima delle religioni come reali mezzi alternativi di salvezza, il rispetto della coscienza individuale, il senso di distacco dai poteri secolari… Secondo me sono – almeno in parte – caratteristiche di una comunità già "di missione" e che ora è chiamata a esercitare fin nel supremo servizio del pontificato quella "missione di ritorno" che abbiamo sempre immaginato e in parte auspicato nelle giovani Chiese, allorché fosse loro toccato di venire a ri-evangelizzare il vecchio Occidente.
Ebbene, quel momento è giunto. Non solo grazie ai parroci africani che ormai sempre più numerosi vengono ad abitare le canoniche in alcune regioni d'Italia, o alle suore filippine che ripopolano stanche congregazioni femminili, o ai novizi indiani e thailandesi destinati a far rivivere le grandi case disabitate degli istituti religiosi storici; no: è anche il Papa "venuto dalla fine del mondo" ad essere missionario tra noi, a Roma, nel cuore stesso della cristianità. E dobbiamo accettare che lo sia col suo stile tanto diverso dal nostro; ovvero che la Chiesa (finora troppo occidentale) si inculturi, tramite suo, in una cattolicità indubbiamente diversa, più planetaria.
Finora abbiamo sempre pensato che il Papa "missionario" fosse quello che partiva dal Vaticano per visitare il mondo. Adesso la missionarietà di questo pontefice si esplica anzitutto nel fatto di essere venuto lui stesso da una Chiesa lontana ad esercitare il ministero nei gangli della Curia. Non è una facile missione, la sua; immagino che, proprio come un prete europeo in Africa, si senta piuttosto solo in questi primi mesi davanti a un compito immane: di governo, certo, ma anche di evangelizzazione, di pastorale, di inculturazione teologica e – perché no? – di sviluppo. Credo persino che alcune scelte di Papa Francesco – che a noi sembrano controcorrente, o addirittura inadatte alla dignità pontificia (abitare in una casa con altri preti, telefonare a destra e a manca, fare le prediche ogni mattina come un parroco qualunque, e così via) – andrebbero lette con lo spirito con cui, per esempio, gli abitanti di un villaggio africano osservano la proposta umana e spirituale del sacerdote bianco venuto ad abitare tra loro.
Bergoglio è insomma il primo papa fidei donum, come si chiamano i sacerdoti diocesani inviati in giro per il mondo. E, come tale, è giusto che il suo modo di essere Chiesa metta profondamente, totalmente in questione il nostro. Siamo noi, stavolta, a dover ricevere e imparare. Avremo l'umiltà per farlo?