I rimproveri all’Occidente, i silenzi dell’Unione Africana e gli appelli della Chiesa. Cosa pensa il continente dopo il naufragio del 3 ottobreGuardata dall’altro lato del Mediterraneo, Lampedusa è “un cimitero per i sogni”. Così Abdul Tejan-Cole, sul Premium Times nigeriano, una settimana dopo il naufragio del 3 ottobre al largo di Lampedusa, dava voce a chi assiste alle tragedie del mare non dalle terre d’approdo, ma dai Paesi di partenza. E a sud del Mediterraneo e del Sahara – i due grandi ostacoli naturali spesso affrontati dai migranti africani – molto si è scritto e detto dell’ennesima strage, senza che in Europa venisse notato.
In molti hanno chiamato in causa proprio l’Unione Europea, che Tejan-Cole accusa per aver reso “doloroso, costoso e quasi impossibile” ottenere un visto, e aver “militarizzato il Mediterraneo”. Oltre è andato un articolo del sito sudafricano di ‘informazione alternativa’ South Africa Civil Society Information Service (Sacsis), per cui “ogni singola vittima dovrebbe ricordare al mondo sviluppato, che queste morti riflettono” un sistema economico fortemente sbilanciato “a vantaggio del Nord”, fondato anche sullo “sfruttamento” delle risorse africane.
Sempre dal Sudafrica, sul Daily Maverick, anche l’editorialista Simon Allison ha citato “l’esame di coscienza” richiesto ai politici, domandandosi però anche se “da africani” non bisognerebbe “fare le vere domande” a qualcuno “più vicino a casa nostra”. Il dito di Allison era puntato contro quei leader che – proprio nelle nazioni da cui arrivano più di frequente i migranti – “non hanno la capacità o la volontà di fornire ai loro cittadini condizioni come lo Stato di diritto o l’accesso a istruzione e sanità”. La stessa Unione Africana, per l’editorialista, non ha voluto chiedersi “perché così tanti africani sentano il bisogno di fuggire dal loro continente”. Altre critiche all’istituzione sono arrivate dopo le parole del capo di gabinetto della presidente della commissione dell’Unione. “Il problema, qui, non è di immigrazione legale o illegale. Ciò che è successo, qualsiasi sia la ragione, non dovrebbe accadere a nessuno su questa Terra” aveva detto Jean-Baptiste Natama, mentre molti si attendevano iniziative concrete.
Non sono del resto mancate le voci ‘controcorrente’. Il governo dell’Eritrea – Stato da cui provenivano molte vittime del 3 ottobre – ha addirittura indicato i trafficanti di esseri umani come complici di un presunto complotto internazionale. Tacendo sul ruolo che le politiche repressive del regime – denunciate unanimemente dalle organizzazioni per i diritti umani – hanno nel provocare la fuga di massa dal Paese. E il giornale ugandese The Independent ha definito, riprendendo alcune voci della società civile continentale, “la migrazione illegale o irregolare (…) una strada per il suicidio”. Vista la crisi dell’economia europea, si leggeva nello stesso articolo, questo potrebbe essere “il peggior momento possibile” per rischiare la vita nel viaggio verso l’Europa.
E la Chiesa? Per molti africani, l’alternativa tra restare e partire è una scelta “tra la morte e la morte”, ha detto alla Radio Vaticana l’arcivescovo di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel. Per lui il “Vergogna!” pronunciato da papa Francesco, dunque, è rivolto sia ai governi europei, sia a quelli che – in Africa – non riescono a dare “segni di speranza” ai giovani. Ai ragazzi l’arcivescovo ha chiesto di continuare a credere che “cambiare la situazione dall’interno” sia possibile, in uno spirito di “solidarietà” che non lasci soli nei paesi d’origine “vecchi e bambini”.
“Andare oltre la semplice assistenza, che rimane indispensabile in caso d’urgenza” e considerare invece “il fenomeno migratorio nella sua globalità, nelle sue cause, nei suoi effetti, nelle sue conseguenze” è stato anche l’appello dei vescovi del Nordafrica. Un discorso che un altro vescovo, quello di Gibuti, mons. Giorgio Bertin, alla luce di una lunga esperienza missionaria, ha completato, parlando a Fides: “la risposta vera a queste tragedie – ha detto – si trova non nel Mare Mediterraneo o nel Golfo di Aden, ma nell’affrontare i problemi economici, politici e culturali dei Paesi d’emigrazione”.
I beni a cui queste persone aspirano, ha poi specificato mons. Bertin all’agenzia MISNA, “non sono impossibili da realizzare nei loro Paesi ammesso che anche noi – con le adeguate politiche e pressioni internazionali – favoriamo il diffondersi di pratiche democratiche”. L’Africa, insomma, non può essere vista come qualcosa di estraneo da chi vive a Nord: del resto, chiosa Simon Allison ricordando che il continente è stato la culla dell’umanità, “siamo stati tutti rifugiati africani, un tempo”.