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Malaysia, Allah proibito ai non musulmani

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Per i giudici usare il nome “Allah” su pubblicazioni non musulmane indurrebbe i fedeli a prestare attenzione ad altre religioni
Il 14 ottobre la Corte d’Appello di Kuala Lumpur, in Malaysia, ha reso la sua attesa sentenza nella causa fra il governo e la Chiesa Cattolica locale, alla quale era stato vietato di usare il termine «Allah» per designare Dio nelle sue pubblicazioni. La Corte ha dato torto alla Chiesa Cattolica, e dunque l’uso del termine «Allah» rimane vietato, non solo per i cattolici ma per tutti i non musulmani.

Non servono alla pacatezza e al dialogo i comunicati di organizzazioni fondamentaliste locali che, dopo la sentenza, invitano i cristiani a «accettare che la Malaysia è uno Stato musulmano o emigrare», ma il lettore italiano ha diritto a qualche elemento di contesto. Dovrebbe dimenticare Emilio Salgari (1862-1911) e i suoi «Pirati della Malesia». Oggi la Malaysia, grazie al petrolio, è un Paese ricco e ragionevolmente moderno, dove il visitatore è accolto da grattacieli fra i più alti del mondo, alta tecnologia e banche internazionali – anche se esistono una distinzione e uno squilibrio fra la capitale e altre aree della Federazione Malese.

È anche un Paese che conosco bene: l’ho visitato spesso, e ho avuto occasione d’interagire – per ragioni professionali – anche con la Corte d’Appello di Kuala Lumpur. Il lettore non s’immagini un tribunale da terzo mondo. Le strutture reggono favorevolmente il paragone con le nostre, e i giudici hanno un’educazione più che discreta secondo il sistema britannico. Direi che questa impressione si conferma anche leggendo il testo integrale delle motivazioni della sentenza rese dal presidente della Corte d’Appello, Datuk Seri Mohamed Apandi Ali. Non è un testo motivato in modo sommario.

Ma proprio tutto questo contesto rende la sentenza inquietante. Ci troviamo in un Paese piuttosto moderno, tra grattacieli e negozi di Prada, dove esiste il fondamentalismo ma è tenuto ragionevolmente sotto controllo, e dove almeno nelle grandi città le donne che lo desiderano girano liberamente abbigliate all’occidentale. Eppure…

Eppure capita che un giudice della Corte d’Appello, che scrive con proprietà di linguaggio giuridico e aplomb britannico, ci spieghi – molto semplicemente – che la clausola fondamentale della Costituzione della Malaysia è quella dell’art. 3(1) secondo cui «l’islam è la religione della Federazione». È vero che lo stesso articolo continua affermando che «altre religioni possono essere praticate in pace e armonia in ogni parte della Federazione». Ma l’esimio giudice, attraverso un dotto excursus sui lavori preparatori della Costituzione, afferma che lo scopo fondamentale della clausola è «proteggere la santità dell’islam come religione del Paese, e proteggere l’islam contro ogni attuale, possibile o probabile minaccia. A mio avviso la principale minaccia possibile o probabile all’islam in questo Paese è l’annuncio di un’altra religione ai seguaci dell’islam».

In Malaysia, spiega il giudice, c’è la libertà religiosa, ma questa va intesa solo come libertà di praticare la propria religione, se diversa dall’islam, in casa propria o nelle proprie chiese. Annunciare la propria religione con modalità che portino dei musulmani ad ascoltarne il messaggio è vietato. La libertà religiosa alla malese, recita la sentenza, distingue fra «la pratica e la propagazione della religione». Trattandosi del cristianesimo, o di ogni altra religione che non sia l’islam, la pratica è permessa e la propagazione è vietata.

Secondo la sentenza, usare la parola «Allah» su pubblicazioni non musulmane rischia di captare l’attenzione dei musulmani e d’indurli ad ascoltare il messaggio di altre religioni. Ora, la Costituzione della Malaysia vuole precisamente impedire che questo avvenga. Del resto, conclude il giudice, che pure si confessa non esperto di «religioni comparate», nella Bibbia non si trova la parola «Allah» ma solo «Yahweh» o «Yah». Su pubblicazioni di lingua inglese i cristiani potranno usare la parola «God», e anche in malese esistono alternative ad «Allah» per parlare di Dio senza catturare eccessivamente l’attenzione dei musulmani.

Al di là delle questioni linguistiche, la sentenza mostra come, in un Paese più moderno e tranquillo di altri – pure se la Malaysia ha i suoi fondamentalisti, e anche i suoi terroristi – rimane però la grande difficoltà del mondo islamico a comprendere esattamente la nozione di libertà religiosa. Per questa mentalità si tratta solo della libertà di culto – «libertà di pratica» – mentre ogni forma di comunicazione all’esterno della propria religione, in quanto «potrebbe» essere ascoltata – magari per caso – da musulmani, è fortemente limitata o vietata. Se la Malaysia è così, figuriamoci l’Afghanistan. Rimane ancora molta strada da fare prima di potere parlare di libertà religiosa con la certezza che stiamo parlando della stessa cosa.

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