La tragedia che causò la morte di quasi 2000 persone tra la lezione per l’oggi e le ombre di ieri
Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno. Il 9 ottobre del 1963 una gigantesca frana si staccò dal monte Toc che domina la valle e precipitò nel lago artificiale della diga costruita sul Vajont. L'immane ondata che si generò, abbattendosi sui paesi sottostanti, portò dovunque morte e distruzione. La stima "più attendibile", precisa il sito Internet dedicato alla catastrofe, è ad oggi di 1910 vittime. A 50 anni dalla tragedia quella del Vajont è una vicenda che continua ad interrogare la coscienza degli italiani per gli aspetti di attualità che contiene, al di là della conclusione giudiziaria che si è avuta nel 1971 con il riconoscimento di responsabilità penale per la previdibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi.
E' stato il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a farsi interprete dei sentimenti della nazione attraverso un messaggio che "suona come una piena assunzione di responsabilità da parte dello Stato" (Il Messaggero, 9 ottobre). «Quell'evento – ha scritto il capo dello Stato – non fu una tragica, inevitabile fatalità, ma una drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità». Con delle conseguenze che non restano ancorate al passato ma si proiettano sull'oggi e, soprattutto, sul futuro: «È con questo spirito che il Parlamento italiano ha scelto la data del 9 ottobre quale 'Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall'incuria dell'uomo' – ha spiegato Napolitano – riaffermando così che è dovere fondamentale delle istituzioni pubbliche operare, con l'attivo coinvolgimento della comunità scientifica e degli operatori privati, per la tutela, la cura e la valorizzazione del territorio, cui va affiancata una costante e puntuale azione di vigilanza e di controllo».
Anche le altre massime cariche dello Stato hanno sottolineato il legame tra memoria e presente. «"Ricordare significa rendere omaggio alle vittime ma anche far memoria del lavoro eccezionale e eroico di chi ha prestato i soccorsi", ha detto Laura Boldrini. presidente della Camera. Il presidente del Senato Pietro Grasso a Longarone per rappresentare lo Stato nelle cerimonie di commemorazione, è esplicito: "Questo disastro si sarebbe evitato se una maggiore considerazione della vita umana avesse prevalso su interessi economici e strategici. Non si possono sottacere le pesanti responsabilità umane che hanno determinato la catastrofe"» (LaStampa.it 9 ottobre).
D'altra parte non tutto sembra definitivamente chiarito, anche a 50 anni di distanza, come dimostra la testimonianza delle figlie del notaio Isidoro Chiarelli nel cui studio di Longarone, nei giorni precedenti la tragedia, si incontrarono alcuni dirigenti della Sade, la società proprietaria della diga del Vajont. «Si doveva definire la compravendita di un terreno, quando a un tratto il discorso virò. "Facciamolo il 9 ottobre, verso le 9-10 di sera", propose uno di quei dirigenti. "A quell'ora saranno tutti davanti alla tv, e non ci disturberanno, non se ne accorgeranno nemmeno. Avvisare la popolazione? Per carità. Non creiamo allarmismi. Abbiamo fatto le prove. Le onde saranno alte al massimo 30 metri (arrivarono a 300, ndr) non accadrà niente, e comunque per quei quattro montanari in giro per i boschi non è il caso di preoccuparsi troppo"» (Il Giornale.it, 30 settembre).
Il notaio ricevette delle minacce per non rivelare questo episodio e poichè non si piegò, per quasi due anni fu isolato da tutti. Il notaio, raccontano le figlie, non volle mai parlare di "disgrazia" a proposito del Vajont ma di vero e proprio "eccidio". Proprio quello che pensano Mauro Corona, lo scrittore, e il presidente del Consiglio nazionale dei geologi, Gian Vito Graziano, che il 5 ottobre, sui luoghi della tragedia, ha presentato un documento che riscrive la storia di una catastrofe «"figlia della troppa sicurezza di chi pensava di essere in grado di dominare gli eventi; della superficialità di coloro che magari intuirono lo sviluppo e la progressione della frana e fecero poco o nulla per arrestare i lavori; e del fatalismo di coloro che, pur avendo la consapevolezza della tragedia imminente, poco o nulla fecero per allertare le popolazioni"» (Il Giornale.it, 30 settembre).