Figlio di un noto imprenditore, abbracciò la vita missionaria, fondando un ospedale d’eccellenza in Uganda. Ora ne viene chiesta la beatificazioneAl ‘miracolo economico’ preferì quelli richiesti ogni giorno dalla missione in Africa. Giuseppe Ambrosoli era figlio del fondatore della celebre industria italiana del miele, ma negli anni in cui l’azienda del padre si espandeva, scelse di studiare medicina e – dopo essere diventato sacerdote comboniano – di raggiungere i confratelli che a Kalongo, in Uganda, gestivano un dispensario.
Aveva 32 anni quando partì, nel 1956, spinto da una consapevolezza: “Dio è amore, c'è un prossimo che soffre e io sono il suo servitore”. Per tre decenni, questo prossimo fu il popolo Acholi, nel nord dell’Uganda, e il suo servizio l’ospedale di Kalongo, che contribuì a far crescere quasi dal nulla. Per la gente era “il medico della carità”, o doctor ladit, ‘il grande dottore’, a cui ci si rivolgeva anche in casi apparentemente disperati. La responsabilità di avere letteralmente nelle proprie mani la salute non solo spirituale, ma anche fisica, delle persone era qualcosa che padre Ambrosoli sentiva fortemente.
Persino i brevi periodi che trascorreva in Italia erano dedicati a proseguire la sua formazione, o a cercare modi di sostenere l’ospedale. Fu nel corso di uno di questi viaggi che lo incontrò Egidio Tocalli, allora studente liceale, destinato a diventare a sua volta medico e sacerdote comboniano. Le parole di Ambrosoli “sono entrate nel mio cuore come un piccolo seme” ricorda padre Tocalli, oggi settantenne, che al confratello ha dedicato molte pagine delle sue memorie, intitolate L’Africa chiama ancora.
“Ho capito più tardi – racconta padre Egidio, riferendosi agli anni trascorsi in Uganda insieme al doctor ladit – che faceva parte del suo carattere voler aiutare sempre tutti”. Da Kalongo passavano ad esempio molti giovani medici, soprattutto missionari, che accanto al sacerdote completavano il loro tirocinio. “Rimanevo colpito – testimonia ancora Tocalli – dalla enorme capacità di resistenza di padre Giuseppe, di venti anni più anziano di me”, perché, ricorda “oltre alle tante ore di sala operatoria, c’era anche il lavoro di routine nei reparti e negli ambulatori”. E poi, l’impegno per far sorgere una scuola di ostetricia e due lebbrosari.
Gli sforzi, però, ebbero anche conseguenze negative: la salute di Ambrosoli peggiorò e gli fu diagnosticata una malattia ai reni. Riuscì a convincere i superiori a mandarlo di nuovo a Kalongo, dove continuò a non risparmiarsi, nonostante le raccomandazioni dei medici, fino all’ultimo. Nel febbraio 1987, durante la guerra civile che aveva investito il nord dell’Uganda, dopo un ultimatum dei soldati, il missionario, i malati e il personale dovettero partire, mentre i militari incendiavano gli edifici.
Poche settimane dopo, il 27 marzo, ‘il medico della carità’ sarebbe morto nella vicina città di Lira: aveva 65 anni. “La sua bontà, la sua pazienza infinita e la sua incredibile disponibilità – ricordano i confratelli – lo identificavano come un vero uomo di Dio” per cui la cura dei corpi “era tramite e occasione” per quella delle anime.
Nel 1999, a Kalongo, è iniziato il processo canonico per la beatificazione: perché sia completato, è necessaria la testimonianza di un miracolo. Ma già quel che il ‘grande dottore’ riuscì a ottenere grazie all’esempio è qualcosa di straordinario. Lo crede anche padre Tocalli, che parla di un “primo miracolo ‘morale’ di padre Ambrosoli” quando ripensa a ciò che accadde al ‘suo’ ospedale. La gente del luogo aveva impedito ai soldati di distruggerlo: al contrario di quello che il dottore aveva creduto abbandonandolo, erano bruciati solo alcuni magazzini.
“Voi potete ucciderci tutti – dissero ai militari gli abitanti di Kalongo – e anche dar fuoco all’ospedale: ma chi piangerà non saranno i bianchi che ora sono lontani, ma i nostri e i vostri figli e nipoti…”. Sapevano che il centro sanitario non era solo l’opera dei missionari europei: doveva restare agli ugandesi ed essere fatto crescere da loro. Era la lezione di padre Ambrosoli, fedele al motto del fondatore della sua congregazione, San Daniele Comboni: “Salvare l’Africa con l’Africa”.
Ancora oggi l’ospedale – insieme alla scuola per ostetriche – è un modello d’eccellenza: sostenuto dalla Fondazione Ambrosoli, ha 210 dipendenti, di cui solo 4 non ugandesi, ma resta intitolato a padre Giuseppe, a ricordo dell’opera preziosa del doctor ladit.