Il Vaticano II ha presentato la dottrina come qualcosa che ha sempre bisogno di essere interpretata e fatta propria in una chiave pastoraledi Richard Gaillardetz*
Negli ultimi 50 anni, abbiamo avuto cinque papi. I primi quattro erano stati, al Concilio Vaticano II, o vescovi o peritus (consiglieri speciali). Francesco non è un papa uscito dal Concilio, ma si sta velocemente rivelando come un papa del concilio. Ognuno dei suoi recenti predecessori, per essere sicuro, portava avanti elementi specifici dell'insegnamento conciliare. Questo papa, tuttavia, ha ricevuto l'insegnamento del concilio attraverso la sua peculiare esperienza come gesuita, come latinoamericano e, soprattutto, come pastore. Il suo pontificato rappresenta una nuova, fresca fase nella ricezione in corso del Vaticano II, una ricezione modellata da una varietà di sviluppi postconciliari.
Papa Benedetto XVI sembrava preferire una chiesa più piccola, dottrinalmente più pura. Voleva una chiesa disposta a confrontarsi con le perniciose forze del secolarismo. Francesco ha espresso la sua preferenza per l'immagine conciliare di una Chiesa come popolo di Dio. Le sue parole e i suoi atti fanno pensare ad una chiesa più aperta, estroversa, che dev'essere “la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate”. Vede una chiesa che deve rischiare di commettere errori uscendo nel mondo e che coinvolga le persone là dove sono. Vuole una chiesa che possa favorire una “cultura dell'incontro”. La chiesa che lui chiede sarà più “incasinata”, perché dà spazio ad dialogo onesto, all'ascolto e perfino al dissenso. Ad esempio, nella sua recente intervista per le pubblicazioni gesuite in varie parti del mondo, riflette su ciò che significa “pensare con la chiesa”. Per lui, questo inizia con l'andare oltre i propri “credo” modellati secondo il proprio stile e spesso a servizio di se stessi.
“Pensare con la chiesa” significa anche molto più di una scrupolosa e servile obbedienza ad ogni decreto ecclesiastico. Significa pensare con l'intera chiesa e non solo con coloro che contano al suo interno. Significa osar entrare in una “complessa rete di relazioni”, vivendo in una solidarietà aperta con tutto il popolo di Dio. Significa ricordare non solo l'infallibilità dei docenti della chiesa ma anche, come ha insegnato il concilio, l'infallibilità della chiesa che crede. “Quando il dialogo tra la gente e i Vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo”, afferma il papa. Chiede la riforma di strutture consultive e collegiali (ad esempio i sinodi episcopali) perché vuole una chiesa umile, che ascolta, che fa discernimento. Francesco sottolinea l'insegnamento del concilio secondo cui la chiesa è “missionaria per sua natura” (Ad Gentes). La sua franca difesa dei poveri e degli emarginati lo ha condotto a far uscire la teologia della liberazione dalla sua prigione e a ripristinarla come una risposta legittima e necessaria all'imperativo missionario del concilio. Francesco vuole una chiesa mandata in missione come strumento della misericordia e della giustizia di Dio. “La cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia”.
Non è interessato ad una riforma della Chiesa che equivalga ad una mera riorganizzazione dell'arredamento ecclesiastico. Una riforma ecclesiale autentica sarà a favore della missione della chiesa. Rivolgendosi al comitato di coordinamento delle Conferenze episcopali dell'America Latina, o CELAM, durante la sua visita in Brasile in luglio, ha detto: “Il “cambiamento delle strutture” (da caduche a nuove) non è frutto di uno studio sull’organizzazione dell’impianto funzionale ecclesiastico, da cui risulterebbe una riorganizzazione statica, bensì è conseguenza della dinamica della missione. Ciò che fa cadere le strutture caduche, ciò che porta a cambiare i cuori dei cristiani, è precisamente la missionarietà”.
Un concilio missionario ha ispirato un papa missionario per creare una chiesa missionaria. Alcuni credono che troppo sia da ricondurre allo stile peculiare di Francesco. È grandioso il fatto che viva più semplicemente, paghi personalmente i suoi conti, viaggi in una Renault vecchia di 30 anni, ma rimane il fatto – l'argomento funziona – che a livello della dottrina della chiesa questo papa non ha cambiato niente. Detto francamente, checché si dica di Francesco, le donne non saranno ordinate, e i gay continueranno ad essere visti come intrinsecamente disordinati. Ma quanto è utile questa distinzione tra “stile e sostanza”? “Sostanza”, in questo caso, significa dottrina intesa come un insieme di proposizioni essenziali non toccato dall'applicazione pastorale. La distinzione, tuttavia, ha limiti reali, poiché Francesco non pensa la dottrina come un insieme di verità assolute. In una lettera aperta ad un intellettuale italiano non credente, Francesco ha ammesso la sua riluttanza a parlare di “verità assoluta”, non perché sia un “relativista”, ma perché per i cristiani la verità è mediata da una persona, Cristo, e la si incontra nella storia. In questo il papa sta fermamente all'interno della teologia della rivelazione articolata nella Dei Verbum del Vaticano II.
Il Vaticano II ha offerto un nuovo modo di pensare la dottrina; ha presentato la dottrina come qualcosa che ha sempre bisogno di essere interpretata e fatta propria in una chiave pastorale. Ecco perché Francesco può insistere: “ Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti”. Invece, trovano il loro vero significato pastorale all'interno di un “annuncio di tipo missionario [che] si concentra sull’essenziale, sul necessario. Ecco perché pensa di non stare compromettendosi a livello di dottrina quando suggerisce che abbiamo bisogno di una risposta più compassionevole, pastorale per i divorziati risposati. Essere pastorali, in sintesi, non significa trascurare la dottrina; lo stile pastorale rende la “sostanza” dottrinale piena di senso e in grado di trasformare.
Questo papa vuole forse riscrivere le dottrine controverse della chiesa? No, ma non è questo il modo in cui la dottrina cambia. La dottrina cambia quando i contesti pastorali cambiano e nuove visioni emergono così che quelle particolari formulazioni dottrinali non mediano più il messaggio salvifico dell'amore di Dio che trasforma. La dottrina cambia quando la chiesa ha dei leader e degli insegnanti che non hanno paura di prender atto di nuovi contesti e di nuove visioni che emergono. Cambia quando la chiesa ha pastori che fanno ciò su cui Francesco ha insistito in questi sei mesi: lasciare la sicurezza delle proprie cancellerie, rettorie, uffici parrocchiali e residenze episcopali. Mettere da parte le “regolette meschine” che ci tengono imprigionati e protetti dal mondo. Andare ad incontrare le persone là dove sono.
Se Francesco riesce a creare una nuova generazione di leader pastorali che sono disposti ad incontrare le persone là dove sono, che sono disposti a creare ciò che ha chiamato una “cultura dell'incontro”, avrà creato le condizioni necessarie per un appropriato cambiamento della dottrina. È così che funziona. Solo sei mesi di pontificato: è troppo presto per sapere se Francesco riuscirà a spostarsi da un allettante simbolismo ad un reale cambiamento strutturale. Però sappiamo dove vuole portare la nostra chiesa. Negli ultimi 50 anni siamo stati allettati da vuote allusioni al Vaticano II che troppo spesso mascheravano sforzi poco convinti di dare al concilio una vigorosa forma storica. Francesco desidera liberare la coraggiosa visione di chiesa del concilio e i radicati valori del Vangelo da decenni di cattività. Abbiamo dovuto aspettare a lungo per questo.
[FONTE: “ncronline.org” del 25 settembre 2013]
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*Richard Gaillardetz è professore di Teologia cattolica sistematica al Boston College.