Coniugano insieme semplicità, accoglienza, preghiera, fraternità e capacità culinarieIl quartiere di rue Jaâfar si presenta povero, popolare, trascurato. Già da lontano, tuttavia, una piccola siepe che cinge il pianterreno di un abitato vi attira: è tutta fiorita, crea un altro clima, anzi, si fa messaggio. Povertà e bellezza possono abitare insieme. Ed è qui che abitano anche loro, le Piccole sorelle di Gesù. Nate nel deserto dell’Algeria come un dono di Dio, quando il deserto sa farsi fecondo, ne portano sempre le caratteristiche, quasi i cromosomi di un carisma: semplicità, essenzialità, preghiera e fraternità. Sono distribuite in piccole comunità nel Marocco, ben radicate in mezzo alla gente, seppure di tante nazionalità parlano arabo come tutti e vivono il mistero di Nazareth in terra d’islam. Oltre la contemplazione e la fratellanza universale, ereditate da Charles de Foucauld.
L’islam non è un’ideologia, vi dicono, ma sono persone che esse incontrano e amano quotidianamente. E questo traspare in ogni occasione: la vicina di casa secca il suo miglio sulla loro terrazza altrimenti sparirebbe, un’altra invece i suoi panni, per non perderli, e poi la piccola sorella, ultima arrivata, desiderosa di fare un duro lavoro di strada, cioè la pulizia del quartiere, per conoscere la gente. Il senso del servizio nelle piccole cose le rende grandi: è la regola d’oro del Maestro per i discepoli che predilige. Per me, allora, partire da loro sarà invocare il dono della conversione del cuore. Indimenticabili testimoni di Dio queste Piccole sorelle!
In un altro quartiere vivono le clarisse. È un po’ difficile trovarle, dovrete suonare al campanello di qualche vicino, prima. Un muro alto, bianco, di recente costruzione, nessuna iscrizione fuori come già facessero parte dell’invisibile: è il monastero delle suore messicane. Ma sarà anche una scoperta sorprendente: appena varcata la soglia, una badessa vi accoglie con un sorriso dolce e spirituale e poi sedendovi, come per un cenno segreto, altre sei si metteranno a sedervi accanto. Una vi porterà un piccolo vassoio con una bibita e qualche biscotto, un’altra vi sorprenderà con un flash per una foto-ricordo, una terza vi presenterà il libro d’oro per raccogliere un messaggio. In questo monastero, oasi mistica di preghiera latinoamericana, sarete accolti come un re. La bella accoglienza marocchina, così, si coniuga sorprendentemente con il carisma monastico vissuto qui. Solo due restano di guardia nel silenzio della cappellina accanto alla Virgen de Guadalupe, le altre sette vi fanno corona: la fraternità qui ha la precedenza.
Soavi scendono, allora, le parole di madre Julia, che vi rivela il segreto della loro gioia: il desiderio di Chiara d’Assisi di venire un giorno nella terra dell’islam, come fu per Francesco. Il desiderio risale a otto secoli fa e il giorno è oggi, con loro. «Il nostro impegno è la preghiera vissuta in questo Paese con i voti di castità, povertà, obbedienza e clausura», vi dirà, misurando le parole. Dalle loro mani, poi, escono biscotti e piccole tortillas rotonde, che discretamente entrano nelle case musulmane. Fino a quando qualcuno, raccontano loro, dirà in famiglia: «Abbiamo finito i biscotti delle hermanitas, delle suore», ed eccolo, allora, di nuovo al monastero. Queste «donne che pregano» sono una grazia per i cristiani, ma anche testimoni di Dio per il popolo musulmano che le sfiora. Sono segno, in fondo, dell’importanza vitale della presenza di Dio nell’esistenza di un essere umano. Volate qui da un altro mondo venticinque anni fa, esse non temono la solitudine, ma piuttosto dimenticare il privilegio del sogno di Chiara: essere preghiera in terra musulmana. In un altro quartiere vi sorprenderà una bella chiesa gotica con le sue altissime guglie, diventata stranamente una moschea. Le statue in parte sono state staccate o sbrecciate dalla pietra e i fedeli musulmani vi entrano con noncuranza, distendendosi su stuoie tra pilastri gotici e volte a sesto acuto. Il quartiere, svuotato della presenza francese, aveva a suo tempo visto naturale questa scelta.
Rimane in piedi, però, un altro segno vivente di Cristo: a due passi da qui le suore di Madre Teresa. Verrà ad aprirvi una giovane con un bimbo tra le braccia e poi un’altra con un pancione, un’altra ancora… sono venticinque ragazze-madri accolte qui con i loro piccoli. Vivono come in una grande famiglia, imparano a stare insieme, a trovare un piccolo lavoro, a far crescere il loro bambino. Ad affrontare una vita, in fondo, che per la società musulmana è una vergogna e una maledizione. Ma per le suore di Madre Teresa sono proprio loro, in fondo, a pronunciare quelle parole scritte in grande in cappella accanto al Cristo crocifisso: I thirst. Hanno sete di dignità. Una religiosa vi spiegherà, poi, il lungo cammino di riconciliazione con le rispettive famiglie, quando la mamma della ragazza si presenterà forse un giorno per vedere il bambino… Oppure vi dirà quando recentemente, rimandata a casa dall’ospedale, una ragazza partoriva dalle suore mezz’ora prima della messa e una suora indiana faceva ogni cosa benissimo, portando, poi, in cappella il neonato per una benedizione. «Entrare in una chiesa cristiana, ancora prima di una moschea», sentivi, allora, esclamare qualcuna, e poi aggiungere: «Ogni vita è sacra, un dono di Dio: oggi qui l‘abbiamo veramente compreso».
Nel popolare quartiere di Hanfa c’è il nido delle suore francescane missionarie di Maria. Grande, bello, spazioso, tanto da diventare il porto di arrivo di una ventina di esse, vecchie combattenti in prima linea, in tanti posti diversi in Marocco per quaranta, cinquanta o più anni. All’entrata, vi sorride sulla parete la loro foto-ritratto in grande con una simpatica scritta di benvenuto: un’idea geniale! Poi per i corridoi, alla spicciolata, le incontrerete in carrozzina, appoggiandosi a un bastone o ancora ben dritte nel portamento. Suor Gabrielle da sempre infermiera, ultimamente sulle montagne dell’Atlas, vi dirà di amare tanto i bambini e i malati, aggiungendo quasi come un testamento: «Bisogna amare, accettare fino in fondo gli altri come sono». Suor Teresa, portoghese, vi confida, invece, con una punta di orgoglio che il re l’anno scorso le ha fatto avere tramite il vescovo la medaglia d’onore «Issan Alaouite» insieme a tante altre suore, dopo quarant’anni di servizio negli ospedali: prima volta nella storia… Suor Miriam, con la convinzione delle sue settantasette primavere, vi annuncerà che il lavoro più importante per un missionario è convertire se stesso: così, fu per lei. Accanto a suor Olga, napoletana, ormai in compagnia del suo Alzheimer, un’altra sorella dall’accento francese le canta con tenerezza il suo pezzo preferito: «O sole mio…». A pranzo, poi, alcune ragazze ospiti intonano: «Aggiungi un posto a tavola…» come preghiera d’inizio, ma una suora belga subito la senti esclamare: «Da noi lo si canta ai funerali». Sì, come invito al Signore a fare posto per chi sta arrivando… Nonostante tutto, la serenità e la speranza qui sono regine. E sembra quasi che ogni giorno ognuna canticchi in cuor suo, rivolta a Dio, questo stesso, bel ritornello: «Aggiungi un posto a tavola». Per ricevere, finalmente, l’abbraccio del Signore che hanno servito fino alla fine. Nella terra musulmana, che hanno immensamente amato. Benedette, davvero, le suore di Casablanca!