Intervista al prof. Flavio Felice, economista della Pontificia Università Lateranense
Sono tornate agli onori della cronaca insieme, un caso oppure semplicemente l'esito di una serie di scelte prese in Italia negli anni '90 e poi di nuovo 5 anni fa nel rapporto tra politica e impresa. Parliamo di Telecom e Alitalia, in procinto di essere comprate da omologhe aziende straniere, rispettivamente da Spagna (Telefonica) e Francia (Air France). Ecco allora che il tema delle privatizzazioni, del libero mercato, dell'interesse collettivo tornano in ballo. Abbiamo raggiunto il professor Flavio Felice, docente di economia alla Pontificia Università Lateranense, e autore del libro "L'economia sociale di mercato e i suoi nemici" (Rubbettino).
La situazione di Telecom e Alitalia ci dice molte cose sullo stato del capitalismo italiano. Questo nella sua forma “consociativa”, cioè quello di “relazione” sembra essere in crisi. E' così? E se si, è un bene o un male?
Felice – Per capitalismo di relazione si intende non certo la “relazione” in senso cristiano, bensì una degenerazione caratterizzata dalla consorteria e a volte dal malaffare. Questa forma di capitalismo (che è una delle tante) è decisamente in crisi: questo accade perché le condizioni che lo rendevano 'virtuoso' (o apparentemente tale) sono cadute grazie alla caduta delle barriere nazionali e col mercato aperto che mette in discussione lo Stato-Nazione su cui quel modello si basava. In secondo luogo il nostro capitalismo non è in grado di competere sul mercato globale. E' in crisi ed è un bene che lo sia, perché figlio di una contingenza storica, quella del secondo dopo guerra, con un mercato chiuso, e dove solo poche famiglie potevano entrare nel cosiddetto salotto buono. E' un bene che nel mercato possano competere tutti.
Queste aziende in particolare, non sono aziende come le altre: sono ex aziende di Stato, per molto tempo monopoliste nei rispettivi settori, è stato giusto alienarle oppure è da considerarsi come un danno per la collettività?
Felice – Se ci concentriamo per un momento su Telecom, mi verrebbe da dire che il vero problema è che nel 1997 Telecom fosse ancora un’azienda di Stato. Le privatizzazioni erano necessarie, ma sono state “fatte male”. Non si può privatizzare prima di aver liberalizzato il mercato, perché altrimenti si passa da un monopolio pubblico ad uno privato, con tutti i danni e gli squilibri che stiamo constatando. Stabilite le regole del gioco alle quali tutti devono attenersi, si può vendere. Oltretutto come dicevo le trattative avvennero tra i soliti noti: non a caso, il primo acquirente fu la finanziaria della famiglia Agnelli. In un sistema come il nostro – dove pubblico e privato non ricontrollano e limitano a vicenda – abbiamo un sistema pubblico che ha guidato malamente il processo di privatizzazione, condizionandone l'esito e l'efficienza produttiva. Non abbiamo adottato le regole minime di un mercato sano e virtuoso, magari imparando anche dall’esempio di altri paesi. Il compito della politica – a mio avviso – in questo caso non è quello di indicare una direzione, di guidare, ma di stabilire regole uguali per tutti. Siamo passati dallo strapotere della politica all'assenza totale della politica, un problema per tutti.
L'italianità in una azienda è un requisito utile oppure è solo una questione di retorica politica?
Felice – Non è solo retorico, può essere un requisito utile dove ci siano le condizioni. In un sistema economico produttivo efficiente, la decisione di mantenere gli asset principali non è un dettato della politica, ma un esisto spontaneo del mercato. In un sistema a bassa capitalizzazione, come il nostro, l’italianità diventa un limite in cui si rischia il fallimento dell'azienda e il collasso dell’intero sistema. Il caso Alitalia è emblematico: l'assenza di capitale e l’inopinata decisione politica di preservare l’italianità hanno comportato esborsi da parte della fiscalità generale per salvare una azienda in crisi. Oltretutto, bisogna considerare se il punto di vista che vogliamo assumere è quello dell'Italia come stato-nazione o quello dell’Italia in quanto regione (importantissima!) dell'Unione Europea.
E su Telecom?
Felice – In linea teorica su Telecom si potrebbe parlare di scorporo delle rete, ma il problema è che esiste la possibilità che Telefonica sia davvero interessata solo ad un indebolimento di Telecom dove essa è forte a scapito di Telefonica, come ad esempio in Brasile, un mercato in fortissima ascesa. La politica oggi dovrebbe operare una stretta vigilanza a favore dei piccoli azionisti che da un comportamento del genere potrebbero subire un danno. Gli organismi di vigilanza italiani ed europei possono e devono intervenire.
Come porsi oggi dopo la grande crisi finanziaria di fronte al ruolo dello Stato in economia?
Felice – La crisi finanziaria poi divenuta economica mondiale non è uguale ovunque. Negli USA la crisi è iniziata, ma sta anche finendo perché le aziende americane sono sane e competitive. Sono stati sufficienti alcuni interventi mirati del governo federale, e il sistema nel suo complesso ha potuto riprendere a marciare. In Europa invece il modello di sviluppo vede arrancare le aziende, e in Italia in modo particolare: lo Stato deve regolare, deve liberalizzare e deve risolvere tutti i conflitti di interessi anche i propri. I mercati non sono entità astratte, sono i consumatori e i produttori; detto altrimenti, il mercato siamo noi. E' essenziale sconfiggere i cartelli, ripartire con l'innovazione e la cultura che per l'Italia può voler dire avere un vantaggio competitivo, altrimenti l'alternativa è competere con la Cina con il nostro peso sul costo del lavoro, una soluzione improponibile. L'economia mondiale è in ripresa, ma questo non vuol dire che noi agganceremo la ripresa in modo automatico, se non cambiamo il modello economico e produttivo. La ripresa potrebbe persino risolversi in un disastroso boomerang.