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Se la “differenza cristiana” viene messa alla prova dalla violenza

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Simone Sereni - pubblicato il 24/09/13
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Si ripetono gravissimi fatti di sangue che vedono vittime i cristiani nel mondo. Quale atteggiamento, soprattutto di fronte all’Islam fondamentalista?È la guerra che stiamo sottovalutando. Ed è anche quella che dovremmo assolutamente evitare. Può viaggiare insieme il pensiero di due testimoni egualmente autorevoli, Domenico Quirico e padre Paolo Dall’Oglio, accomunati dall’essere stati rapiti in Siria ma per ora non dall’esito della medesima esperienza. “Eccola la prossima guerra che ci attende” ha scritto in un recente editoriale l’inviato de La Stampa (22 settembre); una guerra che “si avvicina, già incombe, da una parte l’Occidente, noi, dall’altra l’Islam radicale determinato a vendicare i secoli dell’umiliazione”. Il religioso gesuita, invece, quando gli Usa, dopo le Torri gemelle, preparavano l'attacco all'Iraq, disse a Luigi Accattoli: "Dico no con tutte le forze a ogni progetto che metta nel conto l'idea di uno scontro inevitabile tra Occidente e Islam: sarebbe la fine dei cristiani nel mondo arabo e i costi umani ne risulterebbero terribili e forse senza precedenti in tutto il pianeta e in ogni secolo" (Vinonuovo.it, 23 settembre).

Dopo essere un po’ passato di moda, fa capolino in modo diverso ma in entrambe le voci lo scenario dello “scontro di civiltà” teorizzata da Huntington; uno scontro culturale, ma che non necessariamente ha basi religiose. Eppure, come ha ricordato il presidente della Cei, il card. Angelo Bagnasco “in troppe parti del mondo la violenza, specialmente contro i cristiani, non solo continua ma addirittura sembra intensificarsi. Dio non vuole questo, e la comunità internazionale continua a essere tiepida facendo finta di non vedere” (Tempi.it, 23 settembre). E così le stragi fuori da una chiesa protestante di Peshawar, in Pakistan, e quella in un centro commerciale di Nairobi, in Kenya, come le continue violenze di gruppi “ribelli” in Siria, sono opera di gruppi fortemente militarizzati che siamo abituati a chiamare fondamentalisti islamici. Una connotazione però che lo stesso Quirico, nel suo primo chirurgico editoriale subito dopo la sua liberazione, ci ha insegnato a concepire in maniera molto più articolata e meno confessionale di quanto si possa pensare.

Di fronte alla rabbia e all’aggressione, alle tante storie di discriminazione e intolleranza ai danni dei cristiani, la tentazione della rappresaglia a distanza, se non militare almeno sociale e culturale, è molto forte. Assomiglia alla conseguenza estrema di quel principio di “reciprocità” che abbiamo sentito spesso evocare: noi ti accettiamo qui, se tu accetti noi lì. Ma proprio in virtù della distanza dai fatti e dalle minacce, senza il peso inevitabile dell’angoscia e dell’orrore di chi sta vivendo quelle situazioni, dov’è in questo criterio della “reciprocità” la “differenza cristiana”, per usare un’espressione cara al priore di Bose, Enzo Bianchi? Quale forza alternativa opporre all’orrore e alla prepotenza?

Ha scritto l’economista Luigino Bruni (Avvenire, 22 settembre) che effettivamente “la reciprocità è la legge aurea della socialità umana” e che anche “l’amore umano è essenzialmente una faccenda di reciprocità”; un tipo di reciprocità, l’amore, espresso “in vari modi e con molte parole. In quella greca le più note erano eros e philia, due forme di amore diverse, ma che hanno in comune la reciprocità, il bisogno fondamentale della risposta dell’altro”. Bruni però avvisa che “l’eros e la philia sono essenziali e splendidi per ogni vita buona, ma non bastano”. La reciprocità non è abbastanza, la persona “vuole l’infinito”. E nasce “il bisogno di trovare un’altra parola per dire una dimensione dell’amore” ossia agape “che dona all’amore umano quella dimensione di gratuità che non è garantita dalla philia, tanto meno dall’eros”. “La philia – spiega Bruni – può perdonare fino a sette volte, l’agape fino a settanta volte sette; la philia, a chi la chiede, dona la tunica, l’agape anche il mantello”. Questa forma d’amore, secondo Bruni è “anche una grande forza di azione e di cambiamento economico e civile”. Nonostante la tesi per cui “l’agape non può essere una forma di amore civile, perché a causa della sua vulnerabilità non sarebbe prudente”. Di fronte al male subìto dunque, in nome della fede, reciprocità o gratuità?

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