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Chi sono i poveri?

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Caritas Insieme - pubblicato il 24/09/13
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Nella Bibbia troviamo due significati: un significato sociale, legato alla scarsità di beni materiali, e un significato spirituale, che riguarda il posto che Dio occupa nella nostra vitadi don Giuseppe Bentivoglio

Cerchiamo di capire che cosa intendiamo per povertà. In altre parole: chi sono i poveri?

Nella Bibbia troviamo due significati: un significato sociale, legato alla scarsità di beni materiali, e un significato spirituale, che riguarda la concezione che abbiamo di noi stessi e quindi il posto che Dio occupa nella nostra vita. I due significati possono coesistere nella stessa persona, ma possono anche essere disgiunti.

Parliamo adesso del primo significato, quello sociale.

La Bibbia non considera la povertà materiale un bene in sé, un ideale da raggiungere. Anzi, dice che bisogna in qualche modo porre rimedio ad essa qualora diventasse insopportabile, negando la dignità della persona umana. Nello stesso tempo la povertà è vista come un possibile aiuto a riporre la propria fiducia in Dio. Il ricco, da parte sua, è sempre tentato di fare affidamento sulle sue ricchezze e spesso a questa tentazione soccombe, fino al punto da dimenticare la Parola di Dio e le sue leggi. Ciò non toglie che il ricco possa, pur restando ricco, raggiungere la santità. Nella Bibbia Dio ama Giobbe, che possiede grandi ricchezze. Il ricco non è inevitabilmente destinato all’inferno.

Nello stesso tempo è anche vero che alla carenza di beni materiali non corrisponde necessariamente la povertà di spirito. Essa non conduce obbligatoriamente alla santità. Infatti, ci possono essere persone indigenti che vivono un attaccamento alle ricchezze che non hanno, ma che vorrebbero avere. Quando Cristo si identifica con le persone che hanno bisogno di aiuto e soffrono per qualche ragione (v. Mt 25, 31-36), intende dire che di tutti si è fatto carico, in modo particolare di coloro che si trovano nel bisogno, per farci capire che il bisogno, materiale e spirituale, è la manifestazione di un bisogno radicale, nel quale ci troviamo tutti: il bisogno di Dio. Per questo ogni bisogno può essere una pedagogia a Cristo, una invocazione a Cristo. Quindi Cristo non si identifica tanto con chi non possiede beni materiali, ma con chi vive il bisogno di Dio e attende da Dio la salvezza. Occupiamoci del significato spirituale (o religioso-morale) della povertà.

La povertà di spirito, di cui parla il Vangelo, che cosa è? È innanzitutto il riconoscimento di un’evidenza. Quale? Il fatto di essere creature. Se siamo creature, un rapporto ci definisce: il rapporto con Dio. Ogni uomo è chiamato a vivere questa povertà e attendere in essa il dono di Dio. Il dono è Cristo. Se invece rifiutiamo questa povertà, prendiamo le distanze da Dio e neghiamo di aver bisogno di Cristo. Che cosa è il peccato originale se non il rifiuto di questa povertà? Dimentichiamo di essere creature e pretendiamo di esistere autonomamente. Abbiamo a che fare con un vero e proprio delirio di onnipotenza. Dice il serpente: “Diventerete come Dio” (Gen 3,5). Ma il rifiuto di Dio, di questa ricchezza a noi data, ci svuota e dissolve la nostra umanità. Significativamente, dopo il peccato, Adamo ed Eva “si accorsero di essere nudi” (Gen 3,7). I poveri sanno che la salvezza viene da Dio e non dall’opera delle nostre mani, per cui attendono da Dio il compimento della loro umanità. I poveri in spirito sanno che solo Dio ci può salvare e nient’altro.

Se leggiamo il Vangelo, ci rendiamo conto che Gesù vive in prima persona questa povertà spirituale Non solo, ma dice chiaramente che ai poveri di spirito appartiene la salvezza: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5, 3). Sul significato religioso-morale che Cristo nel Vangelo di Matteo attribuisce alla povertà, nel “Discorso sulle beatitudini” S. Leone Magno dice: “Cristo dice: “Beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli”. Potrebbe forse ritenersi incerto quali siano i poveri, ai quali si riferisce la Verità se, dicendo poveri, non avesse aggiunto null’altro per far capire i generi di poveri di cui parla. Si sarebbe allora potuto pensare essere sufficiente per il conseguimento del regno dei cieli quella indigenza, che molti patiscono con opprimente e dura ineluttabilità. Ma quando dice: “Beati i poveri in spirito”, mostra che il regno dei cieli va assegnato piuttosto a quanti hanno la commendatizia dell’umiltà interiore, anziché la semplice carenza di beni esteriori”. Nella lettera ai Filippesi Paolo dice che Cristo “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (cfr. 2, 8). Ma obbediente a chi? Obbediente al Padre. La povertà di Cristo consiste nel fare in ogni circostanza la volontà del Padre: “Gesù disse loro: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»” (Gv 4, 34).

Il contrario della povertà è l’attaccamento alle ricchezze di qualunque natura siano: ricchezze materiali e anche spirituali.

È l’orgoglio di chi pensa che la salvezza sia opera delle sue mani. Gesù nel Vangelo chiede di abbandonare queste ricchezze e di seguirlo. Egli rimprovera chiunque faccia affidamento sulle proprie forze, dimenticando Dio, chiunque mette al posto di Dio qualcosa di suo, fosse anche la propria generosità, la propria bontà, la propria scrupolosa osservanza della Legge. L’attaccamento alle proprie ricchezze è una idolatria, che ci allontana da Dio e ci rende schiavi di noi stessi, delle nostre opinioni e dei nostri averi. Il ricco dimentica che la sua persona e la sua vita non dipendono dalle ricchezze che ha: “Disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni».” (Lc 12,15). Per seguire Gesù e diventare suoi discepoli occorre, perciò, rinunciare alle ricchezze: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 33).

Ma che significa rinunciare a tutti i nostri averi?

Dobbiamo forse vendere ogni cosa, possedere lo stretto necessario e niente più? Se così fosse, la strada non sarebbe percorribile.
In realtà il Vangelo dice che si deve cambiare l’uso delle ricchezze che possediamo (v. Mt 26,6-11): tutto deve essere messo al servizio di Cristo e della sua opera di salvezza. Tutto è in funzione del Regno. Utilizzare diversamente le ricchezze, superando ogni egoismo, implica un distacco da esse ed è possibile a condizione che ci sia stata la conversione del cuore. Tale cambiamento del cuore è la conseguenza del nostro incontro con Cristo, della nostra fede in lui e della docilità con cui lo seguiamo, come ci ricorda l’episodio di Zaccheo (v. Lc 19, 1-10). Non dimentichiamo, poi, che tutti i beni sono un dono di Dio e che ogni cosa ci è data per la gloria di Cristo, il che significa che tutto deve servire a rendere presente Cristo nel mondo. I soldi debbono servire a questo, debbono contribuire all’invito di Cristo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20).

L’uso delle ricchezze a vantaggio delle persone bisognose

Se le ricchezze servono a testimoniare Cristo, va da sé che sull’esempio di Cristo ognuno deve aiutare il prossimo in difficoltà. E deve farlo senza mai dimenticare che in ogni uomo ci sono bisogni materiali e spirituali e che limitarsi a soddisfare i primi non può bastare. Certamente, se una persona non ha il cibo necessario, non ha un’abitazione decorosa né un lavoro dignitoso, la prima cosa da fare è provvedere a queste necessità. Tuttavia, fermarsi qui è un errore. Infatti, dietro a necessità materiali si nasconde spesso un disagio profondo, le cui radici stanno in una coscienza di sé e della propria dignità poco sviluppata o in una educazione ricevuta non adeguata. In molti casi il male più grande non è l’indigenza, ma la solitudine, che aggrava l’indigenza o ad essa conduce, perché la persona non aiutata cade nella trappola del consumismo fino a scivolare in un rovinoso indebitamento, oppure non è capace di evitare errori nell’affronto e nella gestione degli aspetti economici dell’esistenza. In casi del genere, occorre recuperare il senso di responsabilità delle persone, a sua volta conseguenza di una mutata concezione di sé e della vita, di ciò che in essa è importante e necessario e di ciò che non lo è. Se questo lavoro di responsabilizzazione non venisse fatto, l’aiuto sarebbe insufficiente e non renderebbe autonoma la persona, la quale riceverebbe continue elemosine campando di esse. Ma ciò non sembra dignitoso. Le ricchezze spirituali, che ad esempio un cristiano ha, devono aiutare la persona in difficoltà a leggere la realtà, personale e non. Per questo grande importanza hanno nell’aiuto al prossimo i rapporti personali. È in un rapporto tra persone che avviene lo scambio dei beni spirituali (quelli materiali possono percorrere strade diverse, spesso anonime) ed è sempre dentro un rapporto che una persona ritrova se stessa e impara ad intendere diversamente la vita e lo scopo di essa. Il disordine che molti vivono (disordine che ha gravi conseguenze anche materiali) è la conseguenza di un vuoto interiore, di una debolezza, che ci rende facilmente preda dei condizionamenti esterni. Molti, lo sappiamo bene, cercano la propria identità personale e sociale nelle mode correnti, adeguandosi ad esse. Si tratta di una alienazione che porta a scelte di vita onerose, alla fin fine deludenti e spesso rovinose, anche economicamente. Fermarsi al soddisfacimento dei bisogni materiali è comodo, ma nasconde, a mio parere, una certa dose di indifferenza per la persona concreta e spesso è un alibi per tacitare la coscienza. I rapporti, infatti, impegnano molto di più e ci costringono a mettere in gioco noi stessi. Per questo, come ho già detto, i rapporti tra chi aiuta e chi viene aiutato debbono essere curati, appena ciò fosse possibile. Questi rapporti, oltre a vincere la solitudine di molti, hanno, se ben vissuti, una capacità educativa.

Eccoci arrivati al cuore del problema

Esso ha un nome: educazione. Il disagio di molte persone, gli errori di impostazione dell’esistenza che esse fanno, il cedimento alle lusinghe di mode che poi deludono, e la condivisione di culture e mentalità, molto diffuse oggi, che disorientano l’uomo e lo impoveriscono, soprattutto spiritualmente, sono spesso il risultato di una educazione sbagliata e in molti casi assente. Una educazione curata fin da piccoli porta a dare alle cose il giusto peso, a riconoscere i bisogni veri, che in quanto persone abbiamo, distinguendoli da quelli non veri, artificiosamente indotti (dalla pubblicità ad esempio). Il consumismo, conseguenza diretta del nichilismo di questo mondo, pone nei beni materiali la consistenza di sé. Ma esso trova un terreno capace di alimentarlo nel vuoto educativo, nel fatto che in famiglia ai figli non viene detto quale è il senso della vita, il valore che dobbiamo dare ad essa, per che cosa dunque vale la pena spenderla, di che cosa essere veramente preoccupati, che cosa è necessario e che cosa, invece, è superfluo. In questa confusione, che riguarda anche gli adulti, uno gira a vuoto, disperde le proprie energie ed è scontento di tutti e di tutto. Occorre, dunque, una educazione vera per districarsi nell’oceano dei falsi bisogni, una educazione che, formando le coscienze, renderebbe chiunque critico di fronte ai falsi paradisi in terra e lo renderebbe responsabile di sè e degli altri. In questo modo, sarà possibile un uso intelligente del denaro e di ogni altra ricchezza. Quest’ultima non va demonizzata, ma, come ho già detto, usata bene, come raccomanda S. Paolo a Timoteo: “Ai ricchi in questo mondo raccomanda (…) di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera” (1 Tm 6,17-19).

Ora, se ci imbattiamo in persone inconsistenti, che hanno bisogno di essere aiutate anche materialmente, cerchiamo di affrontare globalmente la situazione. Se, invece, come accade per molti, del bisogno materiale non sono immediatamente responsabili, occorre metterli nella condizione di risolvere mediante un proprio lavoro, sostenuto da interventi mirati, la difficile situazione nella quale si trovano, sempre offrendo un sostegno morale, che tra l’altro permette di vivere positivamente la sofferenza per ciò che è capitato. Mi permetto di insistere: i cristiani hanno uno sguardo originale sull’uomo e sulla vita. Tale sguardo deve essere messo in gioco, non sottaciuto, in quello che essi fanno e nei giudizi che danno. In questo sta il servizio da rendere agli altri. Il benessere materiale non accompagnato da quello spirituale e morale serve a poco. Il mondo non è migliore se tutti hanno in casa automobili ed elettrodomestici in numero crescente, ma lo è se ogni uomo solleva lo sguardo e lo fissa su ciò che può realmente soddisfare il suo cuore, su ciò che è infinitamente grande e che rende grande e bella la vita: “Tutta la legge dell’umana esistenza consiste in ciò: che l’uomo possa sempre inchinarsi all’infinitamente grande. Se gli uomini venissero privati dell’infinitamente grande, non potrebbero più vivere e morirebbero in preda alla disperazione” (F. Dostoevskij).

NB: nell’uso delle ricchezze secondo il Vangelo ognuno è libero di agire come la sua coscienza gli suggerisce. Nessuno è obbligato a seguire uno schema. Ognuno dà quel che può dare e in quel momento si sente di dare, tenuto conto di tutti i fattori in gioco. Già Paolo ricordava ai cristiani di Corinto, impegnati in una colletta a favore della comunità cristiana di Gerusalemme, che ognuno doveva essere libero di dare quel che vuole, senza sentirsi obbligato a niente: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 9, 7).

Poiché siamo alla vigilia della festa di s. Francesco, non posso evitare, prima di concludere, di rendere omaggio a colui che seppe vivere fino in fondo la povertà, in tutti i suoi aspetti spirituali e materiali, e lo fece con una radicalità e una gioia che stupirono il mondo intero. Per Francesco “madonna povertà” fu veramente la condizione tenacemente abbracciata per camminare verso la santità nell’imitazione “senza se e senza ma” di Cristo, diventando così la sua immagine nel mondo.

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