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Come ho conosciuto e amato Don Giussani

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La nuova Bussola quotidiana - pubblicato il 20/09/13
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Piero Gheddo ripercorre la vita e la personalità del fondatore di Cldi padre Piero Gheddo

Quando il 26 agosto scorso Alberto Savorana, amico da una vita, che è stato vicino a don Luigi Giussani dal 1985 alla sua morte, mi ha mandato la biografia del fondatore di Cl appena uscita (“Vita di Don Giussani – A cura di Alberto Savorana”, Rizzoli 2013, pagg. 1.350), mi sono messo a leggerla con interesse e curiosità. L’ho quasi finita e andrò avanti fino alla fine, è troppo interessante! È la ricostruzione della vita di don Gius, minuziosa e ben documentata, con molti testi inediti, un volumone che al vederlo può sembrare indigesto. Invece, se incominci a leggerlo, è affascinante perché l’Autore prende per mano il lettore e lo conduce – raccontando molti fatti, aneddoti, anche contrasti, fallimenti e successi – ad esplorare la sua storia personale, partendo dalle radici e poi, passo passo, il percorso graduale verso la meta, già fissata da Dio dall’inizio dei tempi. Così risulta chiara e provvidenziale la formazione e la personalità del fondatore di Cl e, cosa più importante, la sua costante attenzione a Gesù che bussa alla porta per entrare.

Nel 1958, ero giovane prete del Pime (dal 1953), don Giussani assistente diocesano dell’Azione cattolica a Milano e veniva al Pime per incontrare mons. Aristide Pirovano, fondatore della diocesi di Macapà in Amazzonia, e il dott. Marcello Candia che aveva visitato quella nascente diocesi e poi c’è andato come volontario laico nel 1964. Io ero già nella stampa del Pime e collaboratore del quotidiano cattolico “L’Italia” (dal 1968 “Avvenire”). Giussani mi invita alle sue catechesi su Gesù Cristo, nella sede della Giac  in Via Statuto 2. Ci vado con padre Giacomo Girardi (1931-1998), allora animatore dei Gruppi missionari giovanili che lui stesso aveva iniziato in oratori, scuole  e collegi cattolici. Don Gius mi ha messo in crisi. Presentava Gesù non come un personaggio storico da studiare, analizzare, approfondire. No, parlava di Gesù come presente oggi tra noi, l’unico Salvatore, il Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per salvarci. Ricordo bene che ripeteva con voce commossa, a volte  roca a volte tonante: «Dobbiamo amare Gesù! Dobbiamo innamorarci di Gesù, che è sempre presente qui e in noi!».

E raccontava in modo semplice e personalizzato come la “vita nuova” del Vangelo è di avere Gesù Cristo come primo punto di riferimento in ogni evento della nostra vita. Se la fede non mi cambia la vita, il modo di pensare e di agire, è una fiammella vacillante che si spegne ad ogni soffio di vento; se invece diventa amore e imitazione di Cristo, allora è il sole che mi illumina, mi riscalda, mi conforta. Il sole che c’è anche, oltre le nubi, quando il cielo è nuvoloso. Un discorso sviluppato in varie catechesi che ci affascinava. Colpiva la forza della sua fede e delle sue convinzioni, il suo insistere su Gesù Cristo al centro di tutto e sul valore di una cultura ispirata al Vangelo, per diffondere il messaggio evangelico. Non la fede staccata dalla vita, come momento intimistico, ma che influisce su tutti gli aspetti dell’esistenza umana.

Ben prima del Concilio Vaticano II, Giussani insisteva sul concetto che se la fede non cambia e non umanizza la vita dell’uomo, della società, non conta nulla; se la fede in Cristo non crea, oltre che un “uomo nuovo” in noi, una "cultura nuova" e un “mondo nuovo”, non conta nulla. Giussani metteva con forza, noi ragazzi e giovani preti, di fronte alla bellezza e alla forza della fede, ma anche alla responsabilità di aver ricevuto da Dio questo dono di cui tutti hanno bisogno. Era un modo originale, appassionante, di intendere l’essere cristiano.

Non avevo mai sentito una testimonianza così appassionata e convincente di quello che significa il mio essere cristiano e prete. Avevo studiato il latino, il greco biblico, l’ebraico, l’ermeneutica e l’esegesi, per capire bene i Vangeli e la vita di Cristo, ma nessuno mi aveva mai detto in modo così chiaro e personalizzato che la fede in Cristo, per contare qualcosa nella vita, deve diventare amore appassionato a Gesù, che mi rende più simile al Figlio di Dio, l’autentico “uomo nuovo”. Giussani lo ripeteva: se la fede non cambia e non rende più umana la vita dell’uomo e della società, non conta nulla. Grazie a Giussani il mio sacerdozio divenne più pieno e più vero. Intendiamoci, ero già ben instradato, tirato su da due genitori che – a Dio piacendo – sono avviati alla beatificazione, e poi c’era stato il seminario diocesano di Vercelli e il Pime; ma quegli incontri con don Gius mi hanno scosso e fatto bene.

Il secondo aspetto che ricordo di quei primi contatti con Giussani erano i suoi studenti di ginnasio e liceo che si impegnavano “nella Caritativa”, come dicevano, nella Bassa milanese. Negli anni Cinquanta Milano era molto più piccola di oggi, c’era una forte immigrazione di lavoratori dal Meridione, dal Veneto, dalle Marche e da altre regioni d’Italia. La nostra Via Monterosa, ad esempio, quando studiavo teologia al Pime (1949-1953) era quasi in periferia, oggi siamo più verso il centro città che la periferia cittadina. Don Giussani mandava gruppetti di giessini a fare “esperienza di vita” nei paesini di campagna del sud-ovest milanese (dove c’era già il Pime, dal 1906), nelle cascine e nei casoni di 4-5 piani senza ascensore presi d’assalto dagli immigrati, nelle baracche provvisorie di chi aveva già un lavoro ma non trovava ancora dove abitare. A Rozzano, Zibido San Giacomo, Cesano Boscone, Buccinasco, Baggio, Vizzolo Predabissi, Moirago, dove in capannoni precari col tetto di lamiera nascevano le nuove parrocchie, erano presenti gli studenti e studentesse di GS di prestigiosi licei del centro milanese, quindi di famiglie della ricca borghesia (Berchet, Zaccaria, Manzoni, Gonzaga, Carducci, Parini, Salesiani, Benedettine, Marcelline, Feltrinelli, Virgilio….). Ogni domenica pomeriggio, in quei quartieri nascenti, cascine e baracche, d’accordo con i parroci, i giessini andavano a condividere con le famiglie di immigrati, allestendo corsi di alfabetizzazione per gli adulti, insegnando il catechismo, facendo giocare i ragazzi e i molti bambini senza asilo, visitando i poveri e gli ammalati. Ricordo che i parroci erano edificati perché quegli studenti non erano alcune decine, ma migliaia, e non venivano una volta ogni tanto, ma tutte le domeniche e alcuni anche al sabato!

Il merito primo di Giussani, secondo me, è stato di saper presentare a noi giovani Gesù Cristo vivente oggi in noi, facendoci incontrare con la persona di Gesù, toccando il cuore di molti. Questo uno dei segreti del carisma di questo grande prete e Maestro: convinceva anche dando ragione della sua fede, ma soprattutto commuovendo e convincendo chi lo ascoltava senza pregiudizi e col cuore libero e aperto1. E poi di far incontrare i suoi studenti di Gs con i fratelli e sorelle meno fortunati, imparando a conoscere i problemi dell’uomo nel contatto frequente e amichevole con altre persone, non solo nelle tesi di laurea sui libri. Quante amicizie sono nate e quante vocazioni sacerdotali e religiose e missionarie!
     
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Poi ho perso di vista don Giussani, da quando ho seguito a Roma il Concilio Vaticano II (1962-1965), come giornalista dell’Osservatore Romano per le due-tre pagine conciliari quotidiane e “perito” per il Decreto “Ad Gentes”. Per noi, giovani sacerdoti, quello era il tempo dell’entusiasmo per la diffu
sione della fede cristiana nel mondo. Il Concilio aveva suscitato molte speranze, aveva riformato e ringiovanito la Chiesa, che (anche per Giovanni XXIII e Paolo VI e la presenza a Roma di circa 2500 padri conciliari!), attirava simpatie e consensi. Soprattutto era un Concilio “pastorale” e non “dottrinale”. Indicava con forza e chiarezza che l’”aggiornamento” delle strutture e il rinnovamento dei metodi pastorali avevano lo scopo primario di poter annunziare Cristo in modo credibile a tutti i popoli. Proprio la missione universale (“ad gentes”) alla quale noi missionari ci siamo consacrati! 
Giovanni XXIII aveva profetizzato che “il Concilio sarà una nuova Pentecoste della Chiesa”, come noi giovani sognavamo. Il mondo ci sembrava pronto alla semina evangelica. Ricordo che durante il Concilio e nei primi anni seguenti, proprio in forza dello spirito conciliare di fede, speranza e carità, aumentavano notevolmente le vocazioni sacerdotali e religiose, nascevano le “missioni diocesane” (dopo la “Fidei Donum” di Pio XII nel 1957) e molte iniziative e Ong contro “la fame nel mondo” che finanziavano le micro-realizzazioni dei missionari (sono stato tra i fondatori di Mani Tese al Pime di Milano nel 1964, con padre Giacomo Girardi).

Ma quando il Concilio finisce,  la sua onda benefica incrocia il terremoto del “Sessantotto” (1968), che sconvolge l’Occidente cristiano e la Chiesa, anzi le Chiese cristiane. E’ l’atmosfera politico-culturale di quel tempo nel quale nasce Comunione e Liberazione (Cl) e don Giussani lancia i suoi giovani in una nuova avventura dello Spirito. Chi non l’ha vissuto, difficilmente può immaginare lo sconquasso che quel movimento studentesco (e poi globalizzato) ha causato nelle società occidentali e in particolare nella nostra Italia. Ne parlo brevemente per i giovani lettori.

In Italia, il “Sessantotto” è nato nel novembre 1967 con l’ “occupazione” dell’Università Cattolica di Milano da parte di un gruppo di studenti, si è rapidamente diffuso ad altri istituti di educazione, universitari, di liceo e scuola media e poi è dilagato con la violenza inarrestabile di uno “tsunami”. All’inizio si contestavano i “baroni” delle cattedre universitarie, poi a poco a poco, anche i politici e la burocrazia statale, la scuola meritocratica (si chiedeva “il voto politico” uguale per tutti), i “padroni” delle fabbriche e delle ditte, i Carabinieri, la Polizia  e la giustizia, i vescovi e la mitica “Curia romana”, per giungere fino al Papa, a quel tempo Paolo VI, che si può definire  “il Papa martire del secolo XX” per le contestazioni pubbliche e a volte insolenti, anche da parte cattolica, alla sua persona e alle decisioni che non piacevano ai sessantottini.

Un piccolo esempio. Paolo VI non parlava più di “Dottrina sociale della Chiesa”, poiché prevaleva l’idea che noi cristiani non abbiamo nulla da dire in campo politico, economico e della giustizia sociale, dobbiamo ricorrere all’”analisi scientifica” della società (quella marxista di moda a quel tempo)2. Si stava affermando una concezione della fede intellettualistica, elitaria e missionariamente suicida. La fede dei “pochi ma buoni”, che rendeva irrilevante la presenza di Gesù Cristo e del Vangelo per la soluzione dei complessi problemi dell’uomo e della società. I cattolici si ritiravano  nella “scelta religiosa”, lasciando campo libero ai laici e laicisti nelle università, scuole, giornali, case editrici, teatro, cinema e altri enti in cui si produceva la cultura nazionale. Così, nel tempo del Sessantotto, c’era ancora il popolo italiano in grande maggioranza battezzato e praticante, ma la cultura nazionale stava diventando chiaramente anti-cristiana.

Il movimento del Sessantotto, a me come a molti altri preti giovani, all’inizio piaceva. Ci pareva un movimento di rinnovamento della società, una presa di coscienza degli studenti e dei giovani di quei fermenti di novità che il Concilio Vaticano II aveva seminato nella Chiesa. Infatti era nato all’Università Cattolica di Milano. Ma pochi mesi dopo mi sono trovato all’opposizione, perché era evidente che si stava imboccando una via che faceva a pugni con la fede in Cristo e il “sensus Ecclesiae” della mia formazione cristiana e sacerdotale. Ho poi seguito da vicino e combattuto, con le mie piccole forze, il Sessantotto, sempre più lontano dalla Fede e dalla Tradizione cattolica umanizzanti. Promuoveva una mentalità individualista e protestataria, col risultato di far prevalere la protesta, la denunzia, lo sciopero, il moralismo. Tutti protestavano e scioperavano (contro gli altri), denunziavano e accusavano (gli altri), chiedevano con forza e pretendevano sempre nuovi privilegi (un solo esempio, l’assurda “baby pensione”, per cui un dipendente statale, dopo 15 anni di servizio allo Stato, poteva andare in pensione con una pensione minima, ma poi naturalmente, a 40 anni o anche meno, prendeva un altro lavoro!).

Paolo VI, applaudito e osannato per l’enciclica “Populorum Progressio” (1967, della quale si dava una lettura parziale e strumentale), veniva condannato e deriso l’anno dopo per la “Humanae Vitae” (1968) che oggi risulta un’enciclica profetica. Ma allora, anche non pochi teologi, moralisti e pensatori cattolici, in riviste e convegni ecclesiali, dicevano e scrivevano che il Papa non capiva le esigenze del mondo moderno, era un debole (“il Papa tentenna”), succube della Curia romana. Si proclamava come verità “scientifica” che il mondo scoppia perché ci sono troppi bambini. Oggi, mezzo secolo dopo il trionfo di quei falsi profeti, siamo a questo punto: secondo l’Onu il mondo invecchia e regredisce anche economicamente perché un’ottantina di paesi registrano ogni anno più morti che nascite! Mancano i giovani, manca la spinta, l’entusiasmo, la fantasia e il coraggio dei giovani! Noi italiani diminuiamo di circa 100.000 e più all’anno, che è più o meno la cifra degli aborti legali! Nel popolo italiano, le morti superano le nascite e veniamo rimpiazzati dai lavoratori stranieri, in buona parte musulmani.

Il Sessantotto era un mix di laicismo, individualismo, marxismo, radicalismo, marcusianesimo3; una crisi dell’Occidente cristiano che sperimentava il “boom” economico ma con troppe ingiustizie e contraddizioni, una crisi culturale che voleva cambiamenti radicali. Il cristianesimo, in duemila anni, non aveva creato il “mondo migliore”, si voleva ripartire da zero e il marxismo sembrava la ricetta migliore, perché “scientifica”. Si diceva che i contestatori sessantottini “non sanno cosa vogliono, ma lo vogliono tutto e subito”. Nelle Università e nelle scuole si viveva nell’attesa delle “assemblee studentesche” (o delle “occupazioni”), dove  prevaleva “il pensiero unico”: chi diceva o proponeva qualcosa di diverso veniva fischiato, minacciato, a volte picchiato. Di per sé i contestatori un ideale ce l’avevano, ma non sapevano come realizzarlo. Volevano un “uomo nuovo”, una “società giusta”, la “pace nel mondo”. Ma non capivano che l’uomo nuovo, il mondo nuovo e la pace nel mondo sono possibili, ma solo a partire da Gesù Cristo. E intanto, prima di costruire qualcosa di positivo, incominciavano a distruggere quel che già esisteva, ad esempio la scuola italiana (statale), che non si è mai più ripresa!

Il Sessantotto è stato complessivamente un tempo molto negativo per la scuola, la famiglia, la politica, la società italiana, la Chiesa; soprattutto per lo “spirit
o” del popolo italiano, che non è più ottimista e pieno di speranze come prima, ma siamo precipitati in un pessimismo che taglia le gambe ad ogni tentativo di ripresa. Come vengono educati i giovani da questa generale decadenza e da questo globale pessimismo del nostro popolo?
 
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Nel Natale 1969, quando già infuriava il Sessantotto, Paolo VI metteva in guardia con parole forti, ancora una volta inutilmente “profetiche”: “Anche i più nobili e grandi valori, disgiunti da Cristo, diventano facilmente  disvalori”. Ma nessun gruppo di “contestatori”, nemmeno quelli cattolici e di associazioni cattoliche, aveva il coraggio di proclamare forte e chiaro che l’”uomo nuovo”, il “Liberatore di tutti gli uomini e  di tutti i popoli” c’è già. E’ il Figlio di Dio Gesù Cristo, bisogna conoscerlo, amarlo, imitarlo, seguirlo.

La Chiesa italiana (presa nel suo assieme) e le associazioni cattoliche tradizionali, erano passive, impotenti e quasi soggiogate della cultura dominante, che avanzava come uno schiacciasassi, azzerando ogni velleità di contrastare il suo dominio che, in genere, si estendeva anche ai mass media, alle scuole,  agli “intellettuali” e formava una mentalità e cultura comune. Ricordo che una parte non piccola del mondo cattolico aveva sposato l’ideologia sessantottina
4, ma anche fra i cattolici e i preti diciamo “moderati” prevaleva l’idea che, certo, in quelle manifestazioni giovanili c’erano aspetti negativi e condannabili, però in fondo i giovani chiedono alla società di cambiare, di migliorare, aspirano alla giustizia, all’eguaglianza, al riconoscimento dei diritti dell’uomo e della donna. Non si capiva, anche da parte di non pochi preti e teologi, che i “valori” cristiani, evangelici (pace, libertà, amore, diritti dell’uomo) erano ben accetti e proclamati, ma Gesù Cristo no. Si prendeva il messaggio ma non il messaggero e la sua Chiesa! E andare contro-corrente, in quei tempi era oltre modo pericoloso5

Tra l’altro, si affermava in quegli anni la contestazione della Chiesa in forme eclatanti; comunità di fedeli che si staccavano dall’obbedienza al vescovo e al Papa, costituendosi come alternativa alle parrocchie esistenti: la comunità dell’Isolotto di don Enzo Mazzi a Firenze, del  Vandalino di don Vittorino Merinas  a Torino, dell’Oregina di padre Agostino Zerbinati a Genova , quella nata da padre Giovanni Franzoni abate della Basilica di San Paolo a Roma, il Contro-quaresimale di Trento, le manifestazioni del dissenso cattolico di Parma e tante, tantissime altre in molte città italiane, che “facevano notizia” (vari giornali scrivevano “sono la Chiesa del futuro”) ed erano una spina nel fianco di vescovi, parroci e credenti fedeli a Cristo. Ricordo la S. Messa celebrata ogni domenica mattino in Piazza Wagner a Milano (vicina al Pime), su un palco di fianco all’entrata della parrocchia di San Pietro in Sala dov’era nato un gruppo di contestatori fra i quali anche alcuni sacerdoti. La manifestazione di dissenso è continuata regolarmente per un 20 e più anni, con omelia diffusa in piazza da altoparlanti. All’inizio attirava parecchie centinaia di credenti e curiosi organizzati in associazione riconosciuta legalmente, ma poi, a poco a poco, tutto è finito nel nulla. 

Non era facile, allora, conservare la fede e l’appartenenza alla Chiesa, numerosi sacerdoti uscivano, alcuni chiedendo una “esclaustrazione” temporanea, per “fare esperienza di vita e trovare un modo nuovo di essere prete” (quasi nessuno è rientrato).
In questo scenario drammatico, all’inizio degli anni Settanta nasce Comunione e Liberazione, da universitari di Gs sopravvissuti al tornado del Sessantotto e alle sue trombe d’aria, con un titolo significativo: “Liberazione”, termine sacro al Sessantotto, per liberare l’uomo e i popoli da tutto quello e tutti quelli che li opprimono; e “Comunione”, cioè nell’unità della Chiesa e con la Chiesa.

La nascita di  Cl  non è avvenuta davanti ad un notaio firmando delle carte e degli statuti, ma è stato un gesto di fede e una testimonianza della presenza di cristiani in tutti gli ambienti; in quel tempo, era una provocazione e una sfida imprevista e anche scandalosa, anche perché i primi ciellini, come tutti i giovani (com’eravamo noi giovani dell’Azione Cattolica negli anni 1947-1948 ), brandivano la fede in Gesù Cristo e l’appartenenza alla Chiesa come una clava da sventolare sui crani dei supposti avversari, che erano poi quelli che più o meno la pensavano come la corrente sessantottina maggioritaria. Noi, un po’ più maturi (ma mica tanto) per l’età e il sacerdozio, cercavamo di “dialogare” (termine coniato e lanciato dal Concilio Vaticano II e da Paolo VI6) con tutti, ma per i giovani universitari era indubbiamente più difficile, con coetanei che conoscevano solo la violenza verbale e a volte anche fisica. Comunque, ho sempre visto Cl come una reazione provvidenziale al predominio delle ideologie non cristiane e anti-cristiane che animavano i giovani, nella gran confusioni di voci di quel tempo. Io missionario, giornalista e animatore, mi aspettavo questa riaffermazione dell’identità cristiana dalla Chiesa italiana e dalle associazioni cattoliche. Invece è venuta dai giovani di Cl, animati da don Giussani, che hanno reso visibile la presenza dei cristiani nelle Università, nelle scuole, nei giornali  e nella società italiana7. Ma soprattutto, Cl  ridava ai laici cristiani la gioia e la certezza che il gregge di Cristo in comunione col Papa e i vescovi c’era ancora, e offriva occasioni di impegnarsi nella società per il Vangelo.

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Era inevitabile che il Pime si incontrasse ancora con don Giussani e i suoi pupilli. Nel 1973 a Milano, l’Istituto missionario stava terminando la costruzione del secondo Centro missionario di via Mosè Bianchi (accanto al primo nato nel 1963). Don Gius non aveva ancora una sede per il suo movimento e faceva difficoltà per trovare spazio nelle strutture diocesane e di ordini religiosi. In quel marzo 1973 ritorna da Hong Kong dov’era stato come missionario, padre Giacomo Girardi come direttore del Centro Pime. Era un grande comunicatore dell’ideale missionario8 e apre subito le porte a Cl, che riceve in comodato tutto il terzo piano del nuovo edificio (18 locali abitabili, circa 600 mq), con la possibilità di utilizzo del parcheggio interno, del teatro (780 posti a sedere) e di sale per lezioni e conferenze (la “Sala rossa” con 200 posti). La presenza di don Giussani e della direzione di Cl nel Centro missionario Pime dura vent’anni (1973 – 1993).

Sono i vent’anni nei quali ho conosciuto meglio don Giussani, non solo per la vicinanza fisica (eravamo nello stesso Centro missionario), ma perché sono rimasto coinvolto; anzi, siamo rimasti coinvolti, noi del Centro Pime, in numerose attività del movimento, come loro aiutavano il nostro Centro di animazione missionaria in altre iniziative. Cl era alle prime armi come organizzazione di manifestazioni pubbliche, ha aderito volentieri all’invito di padre Girardi che nell’ottobre 1973 organizza a Milano la prima "Veglia missionaria" alla vigilia della “Giornata missionaria mondiale”, iniziativa che poi si è diffusa ed è ancora uno dei punti fermi per molte diocesi italiane e non solo. 

Era un gesto coraggioso in un tempo in cui la città era occupata dai "
contestatori"
, specialmente al sabato pomeriggio e sera. Padre Giacomo Girardi invita Madre Teresa di Calcutta  come personaggio di garanzia, con lei ottiene alla manifestazione il consenso del card. Colombo, del sindaco di Milano (Aniasi, se ben ricordo), delle forze dell’ordine pubblico. Allora, nessuno osava manifestare in centro città al sabato sera: molti si chiudevano in casa. Con la Madre di Calcutta in testa alla processione, da una chiesa del centro città al Duomo dove ci attendeva il card. Colombo, tutto andò bene.

Poi sono venute le altre “Veglie missionarie” di ottobre e Girardi, che le organizzava per l’Ufficio missionario diocesano9, le preparava per mesi distribuendo i compiti alle varie associazioni cattoliche della diocesi, Azione cattolica, Scout, Focolarini, Fom (Federazione oratori milanesi), ecc. Ma la forza lavoro più numerosa erano sempre i giovani ciellini, anche perché la sede della Veglia era nello stesso Centro che ospitava don Giussani e la direzione del movimento. Erano tempi difficili per la presenza cristiana nella società. Giussani sostenne con entusiasmo le veglie missionarie organizzate a Milano. Memorabile  la Veglia dell’ottobre 1975, dal Castello Sforzesco al Duomo di Milano, con circa 100.000 giovani che dopo aver ascoltato i missionari “testimoni” (fra i quali il servo di Dio dott. Marcello Candia) nella Piazza davanti al Castello, nella lunga serata di digiuno sfilavano per la centrale Via Dante verso il Duomo pregando e cantando inni sacri, sotto gli striscioni delle Beatitudini di Gesù: “Beati i poveri di spirito… Beati i miti… Beati quelli che piangono… Beati i perseguitati per la giustizia… Beati gli operatori di pace….Beati i puri di cuore….”. Proprio quella Via Dante che al sabato sera era solcata dai gruppi di contestatori sessantottini che con un punteruolo rigavano le auto, tagliavano le gomme, imbrattavano i muri, disselciavano la strada per lanciare blocchetti di pietra contro le vetrine dei negozi e i poliziotti, che rispondevano con manganelli e gas lacrimogeni.   
      
Il giorno dopo Il Corriere della Sera dedicava all’insolito avvenimento una pagina con testo, foto e il titolo: “Dunque, i  cattolici ci sono ancora!”. Quegli otto grandi striscioni davvero rivoluzionari rimasero a svolazzare su Via Dante per circa un mese! Uno spettacolo eccezionale che suscitava applausi e proteste. Si diceva che i Vigili avevano troppo lavoro per toglierli, invece padre Giacomo aveva invitato a cena il loro capo e l’aveva convinto a lasciarli là il più a lungo possibile!
E ancora, il 22 aprile 1977 quando nello Stadio di San Siro (in prossimità del referendum sull’aborto!) si svolge la Festa per la Vita, con lo Stadio strapieno di 80.000 giovani, sul campo 18 vescovi delle 10 diocesi lombarde e missionari, più di duecento preti concelebranti, due bande musicali e Madre Teresa tiene il suo discorso sulla vita e poi, dopo la Messa, ancora risponde alle domande di una dozzina di studenti, preparati in precedenza. La madre era ospite del Pime e delle Missionarie dell’Immacolata. La prima volta che è venuta al Centro, ha visto la targa di “Comunione e Liberazione” e le diciamo che quel movimento è nostro ospite. Madre Teresa chiede: "Liberazione da che cosa?". "Dal peccato", risponde prontamente il missionario che l’accompagna. "Allora va bene – commenta la Madre – questa è l’unica liberazione che conta!".

 
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Poi ci sono state altre campagne, sempre con l’impegno dei giovani di Cl, con risonanza in campo nazionale. Quella per la fame nel mondo,  per la pace in Libano e i cristiani profughi dai paesi del Medio Oriente. La Conferenza episcopale italiana è intervenuta appoggiando la campagna per accogliere i profughi da Vietnam e Cambogia, impegnando parrocchie e la Caritas, il governo italiano è intervenuto mandando tre navi militari a ricuperare i profughi nei mari attorno al Vietnam. Ne portarono in Italia circa 3.000, tutti adottati, attraverso la Caritas, da parrocchie e famiglie. Andreotti riceve a Palazzo Chigi padre Girardi e padre Gheddo ringraziando per quella campagna di opinione pubblica e ci dice: “Avete fatto un’operazione opportuna e coraggiosa”, perché negli anni 1978-1980, proclamare ai quattro venti che i due popoli fuggivano da Vietnam e Cambogia dopo la “liberazione” portata dai Vietcong e dai Khmer rossi, si veniva bollati, come minimo, da provocatori “finanziati dalla Cia”.

Com’è ampiamente documentato in questa biografia di don Giussani, scritta con grande rigore documentale da Alberto Savorana,  l’entrata in campo di Cl ha suscitato stupore e avversione nei mass media e in una parte dell’opinione pubblica italiana, anche cattolica. La nascita e i primi passi di Comunione e Liberazione sono stati pesantemente segnati da questa marginalizzazione e demonizzazione di cui erano vittime tutti quelli che reagivano al predominio culturale delle ideologie sessantottine, imposto anche con la violenza. Quante volte, soprattutto nelle Università e assemblee scolastiche, i giovani ciellini erano impediti di parlare, fischiati, minacciati e anche scacciati a spintoni e pugni; oppure attesi fuori da gruppetti dei cosiddetti “picchiatori” del “servizio d’ordine”… Sto descrivendo uno scenario truce che non era certo esperienza quotidiana, ma succedeva troppo spesso, perché anche noi missionari del Pime di via Mosè Bianchi non ne fossimo coinvolti10.

In quegli anni padre Girardi organizzava incontri culturali mensili su tutti i temi di bruciante attualità che riguardavano il Vangelo, la Chiesa, le missioni, i cristiani perseguitati. La “Sala rossa” con 200 posti a sedere (oggi intitolata “Sala Girardi”) si riempiva perché padre Giacomo invitava testimoni, vescovi, teologi e letterati contro-corrente che facevano notizia. Quando alla sera si tenevano queste conferenze, sulla via Mosè Bianchi stazionavano sempre due auto della Polizia e a volte, un poliziotto e una poliziotta controllavano chi entrava nel Centro, per eventuali perquisizioni delle borse e dei tipi sospetti.

Nel 1984 padre  Girardi è stato eletto superiore regionale del Pime a Milano e io mi sono impegnato a fondo per la biografia del Beato Giovanni Mazzucconi e poi per quella del dott. Marcello Candia, scomparso il 31 agosto 1983, e la sua Causa di beatificazione, pur mantenendo la direzione della stampa Pime a Milano. Praticamente ho perso di vista l’evoluzione di Comunione e Liberazione, anche perché dal 1986 è nata da “Mondo e Missione” l’agenzia “Asia News”11 e poi sono stato chiamato a Roma per l’Ufficio storico del Pime (nel 1994-2010).

Quando il 24 febbraio 1998 è morto padre Girardi, don Giussani ha mandato al Pime questo espressivo biglietto di condoglianze: “Comunione e Liberazione accompagna nella preghiera alla dimora del Padre il padre Giacomo Girardi. Il suo cuore, appassionatamente missionario ed ecumenico, nell’assoluta fedeltà al Papa e obbedienza ai Superiori, ha sempre colto e amato quello che di nuovo e autentico nasceva nella Chiesa in forza dello Spirito di Cristo. Vero amico e maestro, per anni ha ospitato con grande cordialità il nostri movimento, accompagnandone l’iniziale diffusione nel mondo sempre indicando Cristo come scopo di ogni impegno missionario”.

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Che ricordo ho conservato di don Luigi Giussani? Di un santo prete e un eccezionale animatore di giovani nella fede in Cristo. La nascita e la diffusione consistente ed immediata di Cl negli ann
i Settanta era un fenomeno straordinario che suscitava opposizioni e consensi, ma anche dibattiti sul perché così tanti giovani andavano, rischiando, così numerosi contro corrente. Nel salone del teatro e nella sottostante “Sala rossa” del Centro missionario Pime, a partire dal 1974 al sabato si teneva la “Scuola di comunità”, mattino e pomeriggio, per gli studenti delle medie e poi delle superiori. L’afflusso esauriva spesso la capienza delle due strutture (circa 1.000 posti a sedere). Ricordo bene che quando parlava don Giussani, noi giovani preti del Pime a volte andavamo a condividere la passione di quella folla di ragazzi e ragazze, seduti anche per terra sul palco e sui gradini dello scalone d’ingresso. Don Gius parlava animato come sempre, anche citando passi del Vangelo ed esprimeva concetti teologico-culturali non sempre di facile comprensione. Eppure, quei giovani ciellini, attenti e concentrati, scrivevano sui loro quadernetti quel che il grande Gius diceva.

A me sarebbe piaciuto andare a leggere quelle loro note (per vedere cosa capivano e cosa scrivevano), ma insomma, quella partecipazione di massa, che si apriva e si chiudeva con la preghiera, era un “segno dei tempi” inequivocabile. Nella confusione di idee, di voci, di proposte e ipotesi di quel tempo, i giovani volevano riscoprire le certezze della fede, per dare un orientamento sicuro alla loro vita. E Giussani era l’uomo giusto per questo. Quando scandiva solennemente: “Ricordatevi, Gesù Cristo è l’unica ricchezza che abbiamo e Gesù lo incontriamo solo nella Chiesa cattolica, nel Papa e nei vescovi a lui uniti!”, qualche volta scoppiavano spontanei gli applausi.

Posso testimoniare, con molta sincerità, che dopo il “Sessantotto” ero invitato in diocesi e parrocchie per conferenze, congressi, giornate e veglie missionarie. Mentre all’inizio degli anni Settanta le opinioni su CL erano in grande maggioranza negative, in seguito ho sentito non pochi vescovi e parroci che dicevano: “Nella mia diocesi (o parrocchia), se non ci fosse CL ci sarebbe poco o nulla d’altro”. Certo, i cattolici erano sempre tanti, ma non visibili nella società, nelle scuole, nei giornali. Ho avuto anche molti contatti con redazioni di giornali e settimanali laici, radio, televisioni e case editrici. Se chiedevo com’era la presenza dei cattolici in quell’ambiente, quasi sempre rispondevano: “Sì, c’è il gruppo di CL”.

Ho già scritto che nelle prime catechesi ai giovani di Gs nel 1958-1959 alle quali assistevo, don Giussani centrava i suoi discorsi su Gesù Cristo, la fede e l’amore a Cristo, l’essere innamorati di Gesù. Ma negli anni Settanta, le ideologie del Sessantotto non se la prendevano più tanto con Gesù Cristo, che era considerato “il primo socialista”, una sorta di capo rivoluzionario che condannava i capitalisti del tempo, predicava la liberazione degli oppressi e dei poveri e fustigava i venditori nel Tempio. Invece i contestatori attaccavano la Chiesa, la presenza fisica di Cristo nella storia, che Giussani difendeva con tutte le sue forze. Per me che appartengo a un istituto pontificio, l’attaccamento del don Gius al Papa me lo rese ancora più caro.

Tanto più che in quegli anni Settanta, il mio superiore generale mons. Aristide Pirovano (1915-1997), consacrato vescovo di Macapà da mons. G.B. Montini nel 1955, era personalmente amico di Paolo VI e raccomandava sempre la devozione e l’obbedienza  al Papa.

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Un’ultima occasione (lo spazio è tiranno!) che ho avuto per apprezzare e ammirare la forza della fede e della formazione data da Giussani ai suoi amici è stata quando a Genova si è svolto il G8 (20-22 luglio 2001). Gli “8 Grandi” si incontravano sul tema degli aiuti per lo sviluppo dei popoli “meno sviluppati”, quelli del Sud del mondo e specialmente dell’Africa nera. Avvenimento diventato famoso per la presenza dei No Global e dei Black Block che misero Genova a ferro e a fuoco. Prima dell’incontro, il 7 luglio, è pubblicato il "Manifesto delle Associazioni cattoliche ai Leaders del G8", dopo una manifestazione al Teatro Carlo Felice di Genova, firmato non da singole persone ma da una quarantina di Associazioni cattoliche, gruppi, enti, istituti religiosi e persino missionari12.

Il secondo,  pubblicato pochi giorni dopo da una trentina di economisti, studiosi e giornalisti cattolici ("Non conformatevi! G8 e anti G8. Da cristiani a cristiani – Contro il ‘pensiero unico’"), venne poi firmato da alcune centinaia di altri credenti. In sintesi, questi testi esprimono le due tendenze che hanno diviso il mondo cattolico italiano, in occasione del G8 a Genova:
          
1)  “Il Manifesto delle Associazioni cattoliche”, per lo sviluppo dei popoli poveri, chiedeva agli 8 Grandi più soldi: Tobin Tax, prezzi delle materie prime, debito estero, medicinali a basso prezzo, finanziamenti dei “piani di sviluppo”, giustizia nel mercato internazionale, abolire le barriere protezionistiche; e poi, abolizione della guerra e del mercato delle armi, il rispetto dell’ambiente, libertà e democrazia economica, la scienza per tutti, il lavoro per tutti rispettando la dignità dell’uomo. Tutto questo, secondo il “pensiero unico” dei No Global. Tutto giusto non c’è dubbio, ma in un “Manifesto delle Associazioni Cattoliche” (e dei missionari) non c’è nulla sulla formazione dell’uomo e delle coscienze, non si nomina mai Gesù Cristo e nemmeno il Vangelo, del Papa si cita solo una frase dove Giovanni Paolo II dice che i giovani debbono portare la pace, la giustizia e la fraternità nel mondo. 
E tutto questo perché, secondo il “pensiero unico” dei No Global (che era una lettura della realtà secondo il marxismo-leninismo-maoismo): il sottosviluppo dei popoli poveri dipende dalla prepotenza e dalle ingiustizie dei popoli ricchi, cioè quelli dell’Occidente cristiano13.  Sulle cause interne e storico-culturali (educazione e alfabetizzazione del popolo ad esempio), che sono fondamentali per capire l’abisso fra i paesi cristianizzati e gli altri, il Manifesto delle Associazioni cattoliche non dice nulla. Secondo il “pensiero unico” della cultura materialista del nostro tempo, lo sviluppo di un popolo si riduce ai soldi14.
2)  Comunque, dopo aver letto quel Manifesto,  alcuni giornalisti di Comunione e Liberazione si impegnano a stilare  un contro-manifesto, ed ecco il “Non conformatevi… al pensiero unico”15, che incomincia con questa citazione di Paolo VI: “Ciò che mi colpisce quando considero il mondo cattolico è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico… Esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa”16
Il secondo manifesto poi continua: “Noi firmatari di questo manifesto siamo semplici cattolici che rappresentiamo solo noi stessi… Confessiamo il nostro profondo disagio di fronte a un documento che rischia di far tornare i cattolici alla situazione di 25 anni fa, cioè ad una sudditanza alle ideologie e persino agli slogan di gruppi o movimenti politici che nulla hanno a che fare con la nostra fede e le cui ricette politiche hanno sempre dato, dove applicate, risultati terribili. Ad una situazione dove non è più chiaro qual è l’originalità della presenza cristiana nel mondo. Anzitutto, noi crediamo che il primo e fondamentale contributo che i cristiani portano all’umanità, anche per la promozione sociale e civile dei po
poli (come dimostra la storia), sia l’annunzio di Gesù Cristo: Dio fatto uomo per sconfiggere il male e dare all’uomo la redenzione e la vita eterna.

“Rileviamo invece che le Associazioni cattoliche firmatarie del Manifesto si dilungano a discettare delle materie più varie (dalle percentuali del Pil alla proposta di tassare le transazioni valutarie, dal divieto di monopoli nell’editoria agli organismi geneticamente modificati), ma non ritengono di affermare da nessuna parte che Gesù Cristo è l’unico Salvatore dell’uomo e che questo annunzio è il loro fondamentale compito”.  Inoltre, il Manifesto censura i temi che il magistero di Giovanni Paolo II richiama spesso… per esempio, contro l’aborto di massa, l’eutanasia, i programmi di sterilizzazione collettiva nei paesi del Terzo mondo, l’uso sperimentale della genetica sull’uomo… Il Manifesto, lungi dall’essere vicino alla Chiesa e alla fede cattolica alla sua base, ha, secondo noi, uno schematismo ideologico, una brutalità manichea, uno sprezzo della ragione umana, che sono assolutamente inconciliabili con quella positiva apertura alla ricerca della verità a cui ci educa l’esperienza cristiana…”.
Nel Manifesto delle Associazioni Cattoliche “c’è una fortissima componente marxista (sia pure un marxismo dilettantesco e superficiale) che si esprime come odio ideologico dell’Occidente capitalistico e del libero mercato, considerati come un imperialismo planetario che complotta ai danni dei poveri: dimenticando peraltro che enormi sacche di fame e sottosviluppo sono state lasciate in eredità dai fallimentari sistemi comunisti”.
Fin qui la critica al Manifesto delle Associazioni cattoliche, alla quale nessuno ha mai risposto. Poi, il nostro Manifesto “Non conformatevi al pensiero unico”, che ho firmato, continua proponendo in modo concreto la soluzione cristiana ai problemi del popoli poveri, partendo dall’affermazione: “Gesù Cristo centro del cosmo e della storia” . In questi due Manifesti appare evidente la novità dell’irruzione di Cl nella storia della Chiesa italiana dagli anni Settanta in avanti. E perché molti cattolici, compreso il sottoscritto, pur non partecipando al movimento di don Giussani, ammirano e ringraziano Cl per il contributo che ha dato e ancor oggi dà alla presenza cristiana nella società in Italia (e in una cinquantina di paesi nel mondo).

* * * * *
Don Giussani aveva un forte senso missionario della fede in Cristo e voleva bene al Pime, ci indirizzava i suoi giovani con la vocazione per le missioni. Una trentina i ragazzi di Gs e Cl entrati nel Pime: ricordo in particolare padre Fulvio Giuliano, che ha costruito e affrescato molte chiese in Amazzonia, il grande padre Massimo Cenci, morto l’anno scorso, missionario in Amazzonia e poi sottosegretario di Propaganda Fide; monsignor Giuliano Frigeni, vescovo di Parintins in Amazzonia; padre Bernardo Cervellera, redattore capo di “Mondo e Missione”,  insegnante di cultura occidentale all’Università di Pechino, poi direttore della Fides e dal 2003 di Asia News; padre Maurizio Bezzi, fondatore e direttore della “Casa di accoglienza per i ragazzi di strada” a Yaoundé capitale del Camerun; i padri Arnaldo Negri  e Alberto Berra, che in Giappone sono il punto di riferimento del movimento, al quale si riferiscono i ciellini.

All’inizio degli anni Ottanta sono invitato ad un incontro con il Consiglio direttivo di Cl all’Istituto Sacro Cuore di Milano. Don Giussani voleva mandare i suoi giovani, già presenti in America Latina e in Africa, anche in Asia e particolarmente in Giappone. Ho presentato brevemente la missione alle genti in Asia, il continente dove vivono il 60% di tutti gli uomini, i cattolici sono circa il 3% e, se non consideriamo le  Filippine, sono poco più dell’1%. Quindi, la “missione alle genti” del futuro è in Asia.

Ma andare oggi in Asia presenta tante gravi difficoltà che non ci sono in Africa e in America Latina (lingue, governi, religioni antiche che stanno rinascendo, leggi contro le conversioni al cristianesimo, persecuzioni….). In Giappone la difficoltà massima è la lingua e la cultura. Siamo all’opposto del nostro Occidente cristiano, con pochissime conversioni. I nostri missionari del Pime in Giappone dicono che per capirci qualcosa e poter parlare, devono trascorrere almeno 3-4 anni di piena immersione (full immersion) nella lingua, cultura e mentalità giapponese.

Mi ha stupito che don Giussani, viste le difficoltà che incontrava il Pime, che aveva 120 anni di esperienza fra i non cristiani in Asia, insistesse sull’andare in Giappone. Ma lui, che senza dubbio era un realista, però per quella sua grande fede che sposta le montagne, era anche un visionario, un profeta. Amava le sfide radicali. Infatti Cl è andata in Giappone e poi in Siberia e nei paesi dell’ex-impero sovietico dove nei 5-6 mesi invernali il termometro è a 20-30 sotto zero e i centri abitati sono a grandi distanze l’uno dell’altro!

Ho chiesto a padre Bernardo Cervellera: “Come spieghi in una battuta, il successo di Comunione e Liberazione” fra i giovani?”. Risponde: “Dipende dal fatto che l’educazione dei giovani viene dalla testimonianza di cristiani adulti che non hanno una fede timida, ma sanno che non c’è nessun’altra cosa al mondo se non Gesù Cristo, cioè la fede “senza se e senza ma”; inoltre, la fede è presentata come risposta radicale alle esigenze dell’uomo. L’uomo alla fine ha bisogno dell’amore e della verità di Gesù Cristo. E’ l’annunzio chiaro e senza peli sulla lingua e questo è affermato non in modo integralista o sentimentale o impositivo, ma in modo ragionevole ed esperienziale. La ragione lo capisce: la vita insegna a tutti che non c’è nient’altro e che le ideologie non salvano l’uomo. “Perché il successo formativo di Cl? Perché tanto mondo cristiano oggi parla della fede in modo relativo: prima vengono tutti gli altri problemi, economia, politica, scienza, cultura, sport, divertimenti, poi in fondo, in modo quasi optional, c’è anche la fede e la vita cristiana”.

NOTE

  1. In quei tempi pre-conciliari collaboravo al settimanale dell’A.C. “Noi uomini”, che aveva circa 600.000 copie!  L’esperienza di don Giussani a Milano era stata segnalata e seguita. Anch’io venivo dall’Azione cattolica, come mamma Rosetta e papà Giovanni e i miei fratelli.
  2. Chi ha sdoganato il termine è stato Giovanni Paolo II che nel suo primo viaggio internazionale a Puebla (Messico), nel gennaio 1979, ha più volte citato la “Dottrina sociale della Chiesa”. Erano anni che non se ne parlava più!
  3. Il filosofo Marcuse teorizzava la “tabula rasa del “mondo vecchio” per costruire il “mondo nuovo”. Era l’ideologia della “Rivoluzione culturale” di Mao Tze Tung  (1966-1976), realizzata pienamente dai Khmer Rossi in Cambogia!
  4. Due esempi. Dopo le elezioni politiche del 1975, quando il Partito comunista quasi superò la DC (e se vinceva avrebbe dovuto formare il governo portando l’Italia oltre la Cortina di ferro!), il vescovo di una piccola diocesi del Piemonte mi invita a parlare in cattedrale, in seminario e in una conferenza nel centro culturale. A cena mi dice: “Mi spiace dirlo, ma penso che il 70-75% dei miei preti sotto i 50 anni abbiano votato per il PCI o per Rifondazione comunista”. In un seminario maggiore dell’Emilia, alle pareti della sala lettura c’erano, oltre al Crocifisso e le due foto del Papa e del vescovo, manifesti sulla Rivoluzione culturale di Mao tze tung, il “Vietnam libero”, Che Guevara e Fidel Castro, le “guerriglie di liberazione” in Africa. Dico al rettore perché permette questa esaltazione del comunismo e mi risponde: “Caro padre, sono giovani, bisogna lasciarli fare, matureranno anche loro”.
  5. Si veda: Roberto Beretta, “Il lungo autunno – Controstoria del Sessantotto cattolico”, Rizzoli 1998. pagg. 250; Piero Gheddo, “Il vescovo partigiano – Aristide Pirovano (1915-1997)”, Emi 2007, alle pagg. 126-143 come venne testimoniato il “Sessantotto cattolico” da Giorgio La Pira ed Ernesto Olivero col suo “Sermig” (Servizio missionario giovani) e il suo “Arsenale della Pace” a Torino.
  6. Che però verso la fine del suo pontificato, non parlava più di “dialogo”. Nella “Evangelii Nuntiandi” (1975), mirabile sintesi di perchè e come la Chiesa evangelizza, Paolo VI non parla più del “dialogo”, il termine stesso non c’è più. L’ha sdoganato Giovanni Paolo II che ha parlato del “dialogo della vita”, cristiani e non cristiani vivono assieme da fratelli, con la testimonianza della propria fede e lo scambio dei suoi valori.
  7. Interessanti le lettere di Giussani al card. Colombo e di Colombo a Giussani negli anni settanta, riportate dalla Biografia di Alberto Savorana. Le prime, quando CL non era accettata in diocesi e don Gius non capiva perché e poi, nella secondo metà degli anni ‘70, quando l’arcivescovo di Milano chiedeva a Giussani di mandare i suoi giovani a studiare giornalismo, filosofia, storia, per poter incrementare la presenza cristiana nei giornali e nelle Università.
  8. Un opuscolo post mortem sulla sua vita, porta il titolo: “Giacomo Girardi, il centravanti della missione” perché faceva i goal, cioè suscitava e portava a casa molte vocazioni sacerdotali, per i fratelli missionari del Pime e le Missionarie dell’Immacolata (le suore del Pime).
  9. La Veglia della Giornata missionaria mondiale, come la concepiva e organizzava padre Giacomo Girardi, portava all’Ufficio missionario diocesano, tra l’altro, molti soldi. Perché i giovani delle varie associazioni e movimenti (compresi non pochi di CL) alla domenica andavano allo Stadio San Siro e nei caselli delle Autostrade di Milano (due a due o tre a tre), portando un cartello con una scritta e una grande foto della Gmm, i cestini e i sacchi per raccogliere le offerte. Sono andato una volta allo Stadio San Siro. Nell’intervallo fra i due tempi di gioco, ho parlato dalla cabina di regia dello stadio, spiegando chi erano quei giovani e ragazze con la fascia al braccio della Gmm e perché e per chi chiedevano una offerta. Naturalmente ci volevano tutti i permessi delle autorità e padre Giacomo li otteneva mantenendo buoni rapporti con tutti e poi invitandoli a cena, in una saletta riservata del ristorante toscano che c’è vicino al Pime.
  10. Ho sperimentato anch’io in quegli anni cosa vuol dire essere fischiato in centri culturali, sale comunali e anche parrocchiali, specialmente quando parlavo della situazione in Vietnam e Cambogia, pur dicendo solo quello che avevo visto e sentito da vescovi  e dalle Chiese locali. Una volta uscendo da un Teatro a Torino mi sono trovato il tubetto della benzina della 500 tagliato: rischiavo di saltare in aria! Un’altra volta, sopra l’ingresso della sala comunale a Crema (Cremona) c’era un grande cartello: “Gheddo fascista, questa sera non parlerai”. Nel corso della conferenza un nutrito gruppo di contestatori urlavano ritmicamente: Ghe-ddo-fasci-sta! Ghe-ddo-fascista!… Tafferugli e risse. Al termine, alcuni della DC che mi avevano invitato mi hanno accompagnato due sulla mia 500 e due con un’altra auto a fare da battistrada, fin verso l’ingresso di Milano, per timore che mi aspettassero per strada. Racconto questi episodi, che però erano abbastanza frequenti, per dare l’idea dell’atmosfera che si respirava a quei  tempi.
  11. Inizialmente su carta e dal 2003 ripresa a Roma da padre Bernardo Cervellera, che mettendola on line nel suo sito Internet, l’ha resa agenzia sulle notizie dall’Asia a livello mondiale (ha circa 12-13.000 contatti al giorno!), con particolare influsso nella Cina attuale. E’ infatti pubblicata in italiano, inglese e cinese e non si sono ancora reperiti i fondi per fare l’edizione araba, richiesta da numerosi vescovi e Chiese del  Medio Oriente.
  12. Ho pubblicato i due Manifesti nel volume: Piero Gheddo – Roberto Beretta, “Davide e Golia – I cattolici e la sfida della globalizzazione”, San Paolo 2001, pagg. 234.
  13. Gli slogan dei No Global a Genova erano questi: “Loro sono poveri perchè noi siamo ricchi”; “Il 20% degli uomini possiedono l’80% delle ricchezze del mondo, all’80% rimane solo il 20%” (invece di “possiedono”, bisognava dire “producono”); non più “popoli poveri”, ma “popoli impoveriti” (prima dell’incontro con l’Occidente, l’Africa nera era ricca, evoluta, sviluppata, si leggeva in un testo per le scuole stampato da una editrice cattolica)…
  14. Nella “Redemptoris Missio” (1990), l’enciclica missionaria di Giovanni Paolo II, si legge (nn. 58-59): “Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. E’ l’uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La Chiesa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che cercano, ma non conoscono, la grandezza dell’uomo creato ad immagine di Dio e da lui amato, l’eguaglianza di tutti gli uomini come figli di Dio, il dominio della natura creata a servizio dell’uomo, il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini…”.
  15. Sono stato uno dei primi firmatari e spiego perché. Avevo già letto il Manifesto e ai miei Superiori, che l’avevano firmato senza nemmeno leggerlo (“perché l’hanno firmato tutti gli Istituti missionari”), ho mandato una lettera nella quale si legge: “Cosa vanno a fare i missionari nel mondo non cristiano? Gli agitatori sociali? Le guide politiche? I tecnici dello sviluppo? Oppure portano il Vangelo di Gesù e la testimonianza della carità gratuita, che è il segno distintivo del cristianesimo: questo converte i cuori e le culture e causa anche sviluppo sociale ed economico!”.  E citavo la Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II (n. 58-59): "Oggi i missionari, più che in passato, sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi"; e aggiunge: "Col messaggio evangelico la Chiesa offre una forza liberante e fautrice di sviluppo proprio perchè porta alla conversione del cuore e delle mentalità, fa riconoscere la dignità di ciascuna persona, dispone alla solidarietà, all’impegno, al servizio dei fratelli". Se non diamo questa immagine del missionario (cioè se perdiamo la nostra identità di annunziare Cristo ai non cristiani), non lamentiamoci più che non abbiamo vocazioni.
  16. Da “Paolo VI segreto” di Jean Guitton.
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