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Kenya: John Anthony Kaiser, il sacerdote (assassinato) degli ultimi

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Davide Maggiore - pubblicato il 17/09/13
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Missionario della Società di Mill Hill, difese i contadini dagli abusi del potere, in nome del Vangelo: fu un “pastore con l’odore delle pecore”
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C’è una croce, lungo la strada che da Naivasha va a Nakuru, nell’ovest del Kenya. Intorno, acacie rosse e, al pascolo, mandrie di mucche e gruppi di gazzelle. Segno che la terra è buona, come quella tolta ai contadini tra cui svolgeva la sua missione padre John Anthony Kaiser, sacerdote statunitense della Società di Mill Hill. La croce lungo la strada è per lui, che si fece difensore di chi non aveva più nulla.

Il suo corpo fu trovato la mattina del 24 agosto 2000: le autorità parlarono di suicidio, così come gli investigatori dell’FBI arrivati appositamente dagli Stati Uniti. Ma le indagini furono da subito criticate, ed emersero dubbi: secondo la ricostruzione ufficiale il missionario si sarebbe ucciso con il fucile che – da appassionato cacciatore – portava spesso con sé. E tuttavia, l’arma fu ritrovata a una certa distanza e il sacerdote sembrava essere stato giustiziato con un colpo alla nuca.

A smentire indirettamente l’ipotesi del suicidio, poi, c’erano le parole scritte qualche tempo prima dallo stesso religioso: “Voglio che tutti sappiano, se io dovessi scomparire – perché la savana è vasta, e molte le iene – che non sto organizzando nessun incidente o, Dio non voglia, auto-distruzione. Invece, confido in un buon angelo custode e nell’azione della grazia”. Nel testo, padre Kaiser alludeva anche alle minacce ricevute da un funzionario, il provincial commissioner della Rift Valley; ma con le autorità si era scontrato già nel 1994, da cappellano del campo di rifugiati di Maela. Circa ottomila profughi lo abitavano: avevano dovuto abbandonare i loro villaggi a causa di scontri tra comunità rivali.

Dietro queste lotte, il religioso vide l’ombra degli interessi di potenti locali, e del land grabbing, quell’accaparramento di terre che, fin da prima dell’indipendenza, era uno dei grandi problemi del Kenya. Padre Kaiser non esitò a denunciarlo, chiamando in causa politici del luogo, ministri e persino il presidente kenyano Daniel Toroitich arap Moi, in carica dal 1978 e che avrebbe lasciato il potere solo nel 2002.

Il sacerdote rimase inascoltato nella sua richiesta di giustizia per gli ex agricoltori di Maela, e il campo stesso fu sgomberato con la forza alla viglia di Natale del 1994. Arrestato, poi scarcerato, infine minacciato di espulsione nel 1999, il missionario non smise di portare aiuto a tutti coloro che denunciavano la violazione dei propri diritti, fino al giorno dell’omicidio. Solo nel 2007 – grazie agli sforzi fatti dalla conferenza episcopale per riaprire l’inchiesta – emerse la verità, ma senza che fosse possibile risalire agli esecutori o ai mandanti.

Mons. Giovanni Tonucci, oggi arcivescovo prelato di Loreto, in quegli anni era nunzio apostolico in Kenya, e ricorda: “Incontrai p. Kaiser a Nairobi, due giorni prima che morisse; non mi apparve un lottatore, ma una persona mite, devota, con un cuore – direi – di fanciullo”. Di sé “diceva ‘io sono un Kisii’, la popolazione con cui lavorò più a lungo – continua il presule – e si identificò con le esigenze di questo suo popolo”. Un comportamento che non può che richiamare alla mente le parole, recenti, di papa Francesco sulla necessità che i pastori abbiano “l’odore delle proprie pecore”.

Pastore, padre Kaiser lo fu pienamente: la difesa dei diritti umani, spiega ad Aleteia mons. Tonucci “era parte della sua missione; in quanto uomo del Vangelo ha vissuto la sua missione e in quanto sacerdote e missionario ha incontrato anche la morte”. Attraverso questa, prosegue l’arcivescovo, ha testimoniato “la necessità della giustizia” e della conversione “a una visione completa del Vangelo, che non può lasciare da parte anche l’aspetto della giustizia sociale”. Il Kenya, è la conclusione, “gli deve molto”.

A quasi quindici anni dalla scomparsa di p. Kaiser, la questione terriera nel Paese resta però in gran parte irrisolta. “Il fallimento del governo coloniale e di quelli successivi all’indipendenza nell’affrontare il problema dei senza terra è la ragione per cui individui e comunità ricorrono spesso […] alla violenza”, si legge nel rapporto della commissione statale su Giustizia, Verità e Riconciliazione pubblicato negli scorsi mesi. E significativa è anche l’ammissione finale, secondo cui le norme attuali rappresentano “una base concreta per affrontare le ingiustizie legate alla terra” ma “solo se vi sarà la volontà politica”.

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