La concezione di Machiavelli, che separa le due sfere, non è mai stata accettata dal magistero. Per questo parliamo di «bene comune» e non di «interesse condiviso»
di Giuseppe Savagnone
L'invito a un esame di coscienza sull'appoggio dato in passato a Berlusconi, rivolto ai cattolici da Aldo Maria Valli su Vino Nuovo, all'inizio di agosto, ha suscitato, insieme a consensi, molte reazioni critiche, perché è stato valutato da alcuni un tardivo "regolamento di conti". «Gli esami di coscienza si fanno, non si fanno fare!», è stato scritto. Non condivido né il giudizio di fatto né il principio etico (non ci sarebbe più posto per la critica sociale), ma sono d'accordo sull'idea che la cosa più urgente oggi, piuttosto che rinvangare il passato, è pensare al presente e al futuro. Si dà il caso, però, che il personaggio Berlusconi (distinguo il personaggio, come figura storica e pubblica, dalla persona, nel cui segreto nessuno ha il diritto di penetrare) ci costringa a parlare di lui proprio in rapporto a queste due dimensioni temporali, se è vero che – come ripetono ogni giorno gli esponenti del Pdl – dal mantenimento della sua "agibilità politica", anche dopo la sentenza della Cassazione che ha reso definitiva la sua condanna per frode fiscale, dipendono le sorti del governo.
Quello che in questa sede mi interessa, però, non è il "caso Berlusconi" in quanto tale, bensì l'atteggiamento dei cattolici in questo frangente. Molti di loro non vogliono più parlarne, per una comprensibile stanchezza nei confronti di polemiche fuorvianti rispetto ai veri problemi del Paese. Sarebbe perfetto, se la soluzione dei veri problemi del Paese non fosse affidata a un governo la cui sopravvivenza, a sua volta, sembra dipendere dal "caso" in questione. Molti altri pensano, insieme alla sinistra, che qui sia in gioco il rispetto della legalità e che essa imponga di riconoscere la "inagibilità politica" dell'ex premier. Molti altri ancora ritengono che la sentenza della magistratura sia il frutto di una persecuzione e che si debba trovare una legittima via d'uscita per non privare nove milioni di italiani del leader in cui hanno avuto fiducia.
Ciò che accomuna le ultime due opposte posizioni è che entrambe fanno dipendere l'"agibilità politica" di Berlusconi dalla possibilità – affermata da alcuni e negata dagli altri – di trovare una soluzione giuridica. Ma può essere questo il punto di vista dei cattolici su un problema politico? La dottrina sociale della Chiesa e tutta la tradizione cristiana insegnano che la politica non è disgiungibile dalla morale, anzi ne è in qualche modo il coronamento. La concezione di Machiavelli, che separa le due sfere, non è mai stata accettata dal magistero. Il bene comune si chiama così – e non si riduce a un "interesse" condiviso – appunto in rapporto a questa insopprimibile valenza etica.
Ora, se le cose stanno così (e mi pare difficile negarlo), il problema dell'"agibilità politica" del capo del Pdl non può fondarsi solo su valutazioni di ordine giuridico, ma dipende da una "agibilità morale", che dovrebbe costituire – almeno agli occhi di un cattolico – il problema fondamentale.
Ma questa "agibilità" a livello etico non può essere ottenuta con espedienti – più o meno legittimi – di ordine giuridico, perché non sottostà agli stessi criteri. A livello giuridico la presunzione di innocenza non viene meno finché non si è arrivati alla condanna definitiva. A livello etico non è necessario il tribunale per valutare colpevoli (o, in chiave religiosa, peccaminosi) certi comportamenti.
Ebbene, tranne che in Italia, la politica dà normalmente la precedenza al criterio etico su quello giuridico. Nei paesi civili non si discute sugli orientamenti dei giudici e sul valore delle sentenze, perché chi viene anche semplicemente accusato di avere commesso azioni riprovevoli sul piano privato e, ancor più su quello pubblico, ritiene doveroso farsi immediatamente da parte, senza attendere l'intervento della magistratura. In questi paesi l' "agibilità politica" viene meno automaticamente non appena viene messa anche solo in dubbio quella etica.
Ora, nel "caso Berlusconi" sembra veramente difficile negare che questo dubbio sia ampiamente legittimato dai fatti. Intanto, perché, al di là delle scontate proteste di ogni condannato e dei suoi avvocati (ne conoscete uno che non sostenga che sono stati i magistrati a sbagliare?), c'è una sentenza passata per tre gradi di giudizio, in cui giudici diversi dichiarano che – come si dice nelle motivazioni di quello di appello (ora confermate all'unanimità dal collegio della Corte di Cassazione) – «vi è la piena prova orale e documentale» che Berlusconi abbia sottratto agli italiani ingenti fondi creando delle società estere occulte per frodare il fisco, e non abbia esitato a «corrompere la Guardia di Finanza che rischiava di scoprirle. Anche perché parte di tali fondi era utilizzata per scopi illeciti: dal finanziamento occulto di uomini politici alla corruzione di inquirenti, dalla corresponsione di somme a testi reticenti alla elusione della normativa italiana (specie della legge Mammì che dettava limiti al possesso di reti televisive)».
Per non parlare dell'altra condanna a sette anni, ancora solo di primo grado, per concussione e prostituzione minorile, che gli avvocati e Berlusconi hanno definito "surreale", mentre, a chiunque giudichi senza pregiudizi, surreale appare soltanto la linea difensiva secondo cui l'allora premier credeva veramente di avere a che fare con la nipote di Mubarak e, per questo, la fece affidare non all'ambasciata egiziana, ma a un'igienista dentale (condannata ora anche lei per favoreggiamento della prostituzione), che la portò la sera stessa a casa di una prostituta brasiliana.
Per non parlare del procedimento appena avviato sulla base della confessione spontanea di un ex senatore della sinistra, poi passato al Pdl, che ha dichiarato di essere stato corrotto da Berlusconi...
Credo ce ne sia abbastanza – anche volendo dare il massimo spazio a tutte le obiezioni avanzate dai suoi sostenitori – per mettere seriamente in dubbio l'"agibilità morale" del personaggio. E in qualunque altro paese da tempo avremmo smesso di parlare di lui, e ora discuteremmo di come trovare lavoro ai nostri giovani.
Ma, ripeto, a me sta meno a cuore questa triste vicenda, tipicamente italiana, che non il ruolo dei cattolici. Intenti, come dicevo prima, a voltare altrove lo sguardo, oppure a litigare su Berlusconi come se il problema fosse solo giuridico e non innanzi tutto etico. C'è chi, con un sorrisetto malizioso, fa notare che i paesi che prima definivo "civili" hanno tutti una matrice protestante e insinua che è il cattolicesimo ad avere abituato gli italiani a convivere con l'immoralità pubblica.
Mi rifiuto di pensarlo. Ma allora? Perché dalla fede sincera di tanti viene fuori una insensibilità verso il tema del bene comune come tema etico? Perché la morale, in politica, da noi viene automaticamente bollata come moralismo? La domanda rimane aperta. Ma mi sembra sia un contributo costruttivo già il correre il rischio di porla.