A Nyahururu, un centro fondato da missionari italiani mobilita la comunità per i disabili mentali, a partire da una consapevolezza: ognuno è un dono
“Solo attraverso la comunità, only through community”, sta scritto sul cancello che si apre per lasciarmi entrare. Sono a Nyahururu, località di montagna a circa duecento chilometri da Nairobi, in Kenya. La popolazione, qualche decina di migliaia di abitanti, è molto meno numerosa di quella della capitale, o degli altri centri importanti del Paese, eppure è diventata protagonista di un’esperienza di mobilitazione che coinvolge persone di tutte le età. E lo ha fatto proprio a partire da quell’only through community, che riassume lo spirito del centro St. Martin.
Il centro è nato grazie a un missionario fidei donum di Padova, don Gabriele Pipinato, che, nel 1997, grazie ad un incontro casuale, ha scoperto le condizioni di vita dei disabili, soprattutto mentali: tenuti nascosti, emarginati, vissuti come il segno di una ‘maledizione’ dalle proprie famiglie e quindi costretti a un’esistenza poco diversa da quella delle bestie. Per cambiare questa visione, St. Martin mira soprattutto a mettere la comunità in grado di prendersi direttamente cura di loro: “non per ‘sentirsi bravi’, ma perché grazie ad essi la società può crescere in carità e solidarietà”, mi spiega don Mariano Dal Ponte, il sacerdote che ha sostituito don Gabriele – tornato in Italia dopo vent’anni di missione – come direttore del Saint Martin.
Agli abitanti di Nyahururu oggi i disabili mostrano come persino attraverso le debolezze di ognuno Dio possa raggiungere gli altri. Sono per molti un invito a trasformare, oltre alle vite altrui, anche la propria. Lavorare con loro, spiega ad esempio Mary, da sei anni impegnata nel centro “mi ricorda le mie disabilità invisibili, i miei limiti”. Queste persone, conclude usando parole che sentirò speso ripetere nei pochi giorni trascorsi in città “davvero ci curano più di quanto noi curiamo loro”.
Ecco quindi che, oltre a mobilitare persone di ogni estrazione sociale – ancora oggi il cuore delle molte attività del Saint Martin sta nell’impegno gratuito dei volontari locali – gli svantaggiati di Nyahururu (tra gli altri beneficiari dei progetti ci sono malati di Aids, alcolizzati e ragazzi di strada) da ‘maledizione’ si trasformano in benedizione e risorsa per una comunità, che diventa, per così dire, capace di essere ‘all’altezza degli ultimi’.
Emblematica è la scena dipinta nel quadro scelto come simbolo del centro: San Martino vi è rappresentato mentre scende da cavallo, mettendosi allo stesso livello del mendicante a cui porge un pezzo del suo mantello. “Se non è paritario, l’amore non è vero”, commenta Chiara, missionaria laica che negli ultimi tre anni ha affiancato i volontari e gli operatori del centro, e mi fa notare la frase scritta sotto le due figure, idealmente dedicata a chiunque si trovi qui: “tu sei un dono”.
Trovo una conferma nelle parole di Maurice: “Le persone con una disabilità intellettuale – mi racconta – sono molto sensibili a quel che provano gli altri, dunque sono in grado di accompagnarti anche in momenti molto difficili della vita. Capiscono cosa provi, non dicono molto, ma si avvicinano e restano con te”. E prosegue: “Considero un privilegio vivere qui, con loro”. Questo ragazzo sulla trentina, infatti, lavora nelle due case aperte in città da L’Arca, la comunità fondata dal ginevrino Jean Vanier, il cui percorso si è incrociato da qualche anno con quello del St. Martin. Per Nyahururu, dice don Mariano, questo è stato “il segno di come la disabilità possa essere accolta in maniera diversa”.
Una dimostrazione del contributo concreto dato dai disabili alla vita locale è anche il laboratorio Marleen Crafts: qui i ragazzi sono coinvolti in workshop terapeutici, in cui vengono realizzati oggetti d’artigianato (candele, giochi in legno, biglietti d’auguri) e dolci. Lo scopo non è direttamente commerciale, ma alcuni di questi prodotti si possono trovare nel piccolo negozio accanto ai laboratori, insieme a creazioni dei beneficiari di altri progetti del St. Martin.
Tra gli scaffali incontro Kababa, un ragazzo con la sindrome di Down di cui mi ha già parlato don Mariano. “Proprio lui, disabile, con la sua capacità di amare nonostante l’emarginazione vissuta – mi ha raccontato il sacerdote – mi ha fatto comprendere l’amore gratuito di Gesù”. “Senza Kababa – ha concluso – forse continuerei a pensarlo solo come un concetto astratto”.