L’intervento al Meeting di Rimini di Guzman Carriquiry Lecour, segretario della Pontificia Commissione per l’America LatinaQuando si sente parlare il Padre Pepe della sua esperienza, dell’esperienza dell’arcidiocesi di Buenos Aires nelle “Villas Miseria”, viene da esclamare: altro che pauperismo ideologico, altro che populismo pauperista! Lui ci aiuta a intravedere il Vescovo Jorge Mario Bergoglio mentre percorre le Villas Miseria, vicino ai suoi preti, entrando nelle case dei più poveri, condividendo il pane e celebrando con loro l’Eucaristia. In fondo è la stessa immagine di papa Francesco che lava i piedi nel carcere minorile di Roma, visita Lampedusa, la favela di Varginha o l’ospedale per i tossicodipendenti a Rio di Janeiro. Non c’è bisogno di una teologia della liberazione per farlo. Basta il Vangelo vissuto, l’abbraccio della carità, il dono commosso di sé. Basta essere discepolo e testimone di un Dio che essendo ricco diventa povero fino all’inverosimile, seconda eucaristia in tutti coloro che patiscono ancora, nella propria carne, ciò che manca alla passione di Cristo. Da ciò che abbiamo fatto (o meno) per i piccoli e bisognosi saremo giudicati. Forse questo è stato, ed è, il contributo più importante della Chiesa latinoamericana alla cattolicità: la ripresa del Vangelo e della tradizione cattolica riguardo a una “Chiesa povera e per i poveri”.
Se le Villas Miseria sono cresciute molto nelle ultime decadi, Buenos Aires, per certo, è molto più di esse. È giudicata da esse, ma è molto di più. L’arcidiocesi che fu affidata al Vescovo Bergoglio era, ed è, una enorme città cosmopolita, dove c’è ancora un radicato retroterra cattolico popolare, ma che è anche segnata da tutte le realtà, stimoli e piaghe della cultura globale. Il “nord” e il “sud” del mondo pongono in Buenos Aires grandi sfide alla pastorale: dall’idolatria dei soldi e del potere alle Villas Miseria, dalla vitalità della religiosità popolare sino all’estrema secolarizzazione e al pullulare di ogni sorta di ideologia. Il Vescovo Bergoglio non teorizzava mai sulla nuova evangelizzazione; condivideva il Vangelo in prima persona, in mezzo alla sua gente, con grande amore al gregge concreto che gli era stato affidato, spingendo i suoi preti a uscire ai crocevia e periferie della vita cittadina, nella lieta e grata convinzione – come dice adesso il papa Francesco – “che la verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde ai bisogni profondi dell’esistenza umana”. In ottimi rapporti con gli eparchi ortodossi della regione, incontrando una volta al mese i pastori evangelici per pregare insieme, legato da profonda amicizia con il rabbino capo di Buenos Aires, molto rispettato dall’Iman della città, Bergoglio praticò nella sua diocesi il dialogo con tutti, “senza negoziare l’appartenenza”. Politici, sindacalisti, imprenditori, giornalisti e tanta gente comune cercava di incontrarlo personalmente perché era riconosciuto come la persona più autorevole e affidabile dell’Argentina, custode della libertas ecclesiae e del bene del suo popolo. Inoltre, il Cardinale Bergoglio è stato sempre non solo argentino, ma anche di forte coscienza latinoamericana, protagonista di quell’evento di maturità della Chiesa in America Latina che fu la Conferenza di Aparecida. Chi legge il “documento di Aparecida” è in migliori condizioni per conoscere la sua impostazione pastorale. Se a questa lunga esperienza sacerdotale e pastorale si aggiunge ancora la sua esperienza “romana” come membro di vari dicasteri della Santa Sede e il suo compito come “relatore” nell’Assemblea del Sinodo mondiale dei Vescovi avendo precisamente come tema la figura del Vescovo all’alba del nuovo millennio, possiamo dunque riconoscere che la Provvidenza di Dio aveva già ben preparato a Jorge Mario Bergoglio per il papato. Poi la grazia che assiste il Successore di Pietro lo ha ringiovanito, lo ha reso più comunicativo ed espressivo negli affetti, più libero, gioioso e determinato nel ministero che gli è stato affidato, con una pace, serenità e un dispendio di energie che solo può provenire dalla profondità del suo rapporto con Dio.
Mi piace ricordare che fu nel volo verso San Paolo e Aparecida che il Santo Padre Benedetto XVI disse quelle parole premonitorie riferite all’America Latina: “Sono convinto – affermò durante una informale conferenza stampa – che qui si decide, almeno in parte – e in una parte fondamentale – il futuro della Chiesa cattolica: questo per me è stato sempre evidente”. Non sarà sfuggito a papa Benedetto che stava per incontrare quel più del 40% dei cattolici del mondo intero (che con gli ispani negli Stati Uniti e nel Canada si avvicinano alla metà!) e in una America Latina non già periferia arretrata, emarginata, disprezzata, ma regione fortemente emergente nella scena internazionale.
Con il papa Francesco, l’America Latina ridà alla Chiesa universale il meglio di se stessa; restituisce al centro della cattolicità il tesoro della tradizione cattolica, profondamente inculturata nella storia e nella vita dei nostri popoli, che le era giunto 5 secoli fa attraverso la prima evangelizzazione dei missionari europei, soprattutto spagnoli e portoghesi. Certo che se nella nostra gente c’è oggi un sano orgoglio per il primo papa latinoamericano, le Chiese dell’America Latina devono però dimostrarsi degne della singolare collocazione in cui le ha poste la Provvidenza. Esse devono assumere accresciute esigenze e responsabilità, che si declinano, direi, a tre livelli. Il primo è quello di ricapitolare e riassumere a sé tutta la grande tradizione cattolica per un salto di qualità nella formazione e crescita cristiana dei fedeli e dei ministri. Il secondo è quello di un rinnovato slancio della “missione continentale” come condivisione del Mistero presente, che commuova la vita dei nostri popoli e apra strade verso il loro sviluppo integrale. Il terzo si riferisce ad una accresciuta responsabilità nella sollecitudine apostolica universale, in collaborazione con il ministero universale del Papa.
L’elezione di Jorge Mario Bergoglio come Successore di Pietro è stata per quasi tutti nella Chiesa un imprevisto. Non era, infatti, considerato tra i grandi candidati papabili. Ma voi vi ricordate bene di qualcuno che ci ha parlato dell’imprevisto come “qualcosa di nuovo che entra nella nostra vita: non previsto, non definito prima”, che accade sorprendentemente, che rompe con schemi prefissati, che scuote la gabbia di comodo nella quale siamo sempre tentati di rifugiarci, che ci pone davanti a realtà che non avevamo preso seriamente in considerazione. Oggi Francesco, Successore di Pietro, è per noi questo avvenimento, la persona reale, singola concreta umanità che fa presente e vicina la compagnia di Cristo all’uomo, che custodisce e mostra il Mistero che salva. Io voglio, qui e ora, essere tra i poveri testimoni della gioia e della gratitudine, della sequela piena di entusiasmo, di questa forma concreta di obbedienza, che ci provoca il dono della Provvidenza di Dio con il papa Francesco. Sono – come confessa anche don Julián Carrón – “contento di poter imparare da lui e di poter essere in compagnia sua per come ci ripropone il primato dell’incontro con Cristo che sempre ci spiazza”. Lasciamoci stupire dalle sorprese di Dio, diceva il papa Francesco a Río de Janeiro. Lasciamoci stupire insieme alle moltitudini che le hanno manifestato una sorprendente accoglienza con un animo aperto, lieto, pieno di attese, anche da molti che si erano allontanati dalla fede o tra quelli che pensavano di aver definitivamente chiuso i conti con la Chiesa. Che cosa è la missione se non un’ attrazione, l’attrazione di una verità, di una bellezza, che sveglia i “cuori anestetizzati”, che rompe la cappa dell’indifferenza, che mette in moto i desideri, che suscita un presentimento curioso, una domanda carica di attese? “La gente semplice ha sempre spazio per albergare il mistero (…). Nella casa dei poveri, Dio trova sempre posto”, ha detto il Papa Francesco nel suo straordinario discorso programmatico all’episcopato brasiliano. Perciò, c’è bisogno di “una Chiesa che fa spazio al mistero di Dio, una Chiesa che alberga in se stessa tale mistero, in modo che esso possa incantare la gente, attirarla. Soltanto la bellezza di Dio può attrarre. La via di Dio è l’incanto che attrae (…). Egli risveglia nell’uomo il desiderio di custodirlo nella propria vita, nella propria casa, nel proprio cuore. Egli risveglia in noi il desiderio di chiamare i vicini per far conoscere la sua bellezza. La missione nasce proprio da questo fascino divino, da questo stupore dell’incontro”. Se si vuole attirare la gente a Dio non si può partire dei “no”, neanche di quei “no” scontati in una Chiesa che sa di non poter negoziare niente di ciò che è sostanziale nella sua dottrina.
Siamo chiamati specialmente in questo straordinario primo semestre del 2013 ad avvertire, da una parte, la salda continuità della grande tradizione cattolica, del patrimonio di fede che ci viene dalla testimonianza apostolica, per mezzo dei Successori di Pietro e in particolare di Benedetto XVI e di Francesco. Mi riferisco a quella continuità che si manifesta nell’incondizionata obbedienza assicurata dal Papa rinunciante a colui che sarebbe il suo successore. Essa si esprime nell’affetto tra Benedetto e Francesco, nelle immagine dei due pregando insieme, nell’enciclica “Lumen Fidei” scritta a quattro mani, nelle parole di Francesco ai giovani, a Rio de Janeiro, ricordando sempre ai suoi predecessori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI accompagnati da fragorosi applausi. Allo stesso tempo, come non ammirare il fatto che si succedano pontefici di cosi diverse biografie, venuti da contesti culturali tanto diversi, di temperamenti, formazione, sensibilità e stili così differenti, al punto che ognuno di essi sembra disegnato e definito come la persona adeguata a rispondere tempestivamente alle richieste della missione della Chiesa nelle varie congiunture storiche. Perciò è opera del demonio – il principe della menzogna e della divisione – concentrarsi ossessivamente nel confronto tra il Vescovo emerito di Roma e il suo successore, sia per rimanere nostalgicamente afferrati al papa precedente – e questa diventa “nostalgia canaglia” quando degenera in giudizi farisaici sul Papa attuale – , sia per esaltare al Papa attuale sino a denigrare i predecessori, considerando tutte le novità e riforme che porta con sé come rottura rivoluzionaria nella tradizione della Chiesa, in quella storia ininterrotta di amore che è la Chiesa.
Oggi abbiamo un solo Papa, Francesco, protagonista di una Chiesa che, per grazia di Dio, si autoriforma in capitis e in membris. Il pontificato di Benedetto XVI, che è stato per quel uomo santo, umile e saggio una specie di via crucis, in mezzo a un clima teso e drammatico nella vita ecclesiale, lascia il passo all’inaspettata ma desiderata esplosione di gioia e di speranza nel pontificato di Francesco, sorpresa dello Spirito di Dio che sa quando e come provocare un risorgere cristiano nelle anime. La straordinaria rinuncia di papa Benedetto “per il bene della Chiesa” acquisisce nuova luce con il pontificato di Francesco. Se Benedetto divenne drammaticamente consapevole, nel suo dialogo faccia a faccia con Dio, della sua mancanza di forze per affrontare compiti e decisioni necessarie, la sua libertà e umiltà – la consapevolezza che è Dio, e non il papa, che conduce la sua Chiesa! – prepara il cammino affinché il timone della barca di Pietro sia preso da chi, per grazia di Dio, è capace di farlo in migliori e sorprendenti condizioni. Dopo il santo magister, il santo pastore, padre vicino al suo popolo. La più grande teologia ratzingeriana, che è ricchezza di magistero per la Chiesa di oggi e di domani, lascia il passo alla predica vissuta di un Vangelo “sine glosa”, che è alla sua sorgente. La salda formazione teologica e filosofica del papa gesuita si fa a posta essenzialità evangelica nella sua “grammatica di semplicità”, un rinnovato impeto e freschezza apostolica nello stare tra la gente – mai distaccato, mai rifugiandosi nella retorica dei “principi” – con gesti pieni di affetto, di consolazione, di tenerezza. Imprevisto e imprevedibile – scrive il Vescovo e amico Massimo Camisasca – perché sempre alla ricerca, guidata da Dio e della sua esperienza pastorale, di nuove strade per raggiungere gli uomini che ha davanti. E la gente si sente toccata dal percepire l’abbraccio di una misericordia misteriosa e debordante. Francesco predilige la medicina della misericordia più che il rigore dell’atteggiamento severo e giudicante. “Dio perdona sempre, perdona tutto. Siamo noi – ripete – che ci stanchiamo di farci perdonare. E perciò la necessità della preghiera, umile, forte, coraggiosa, perché Gesù possa fare il miracolo del cambiamento nella nostra vita.
La sua è una rivoluzione evangelica. Dopo le devastazioni umane in cui sono finite le Rivoluzioni, con la “R” maiuscola, secondo la mitologia dell’ateismo messianico, solo la Chiesa può riprendere con verità – diceva il mio maestro Alberto Methol Ferré nel libro-intervista fatto con l’amico Alver Metalli – a parlare di rivoluzione. Sembrava ascoltarlo il papa Benedetto XVI che dopo parlava di una “rivoluzione dell’amore”, il cristianesimo come “il mutamento più radicale della storia. La “rivoluzione della grazia” dice adesso Francesco, perché è la sola che cambia ontologicamente l’uomo, il soggetto della storia. “Metterci nell’onda della rivoluzione della fede” disse ai 3 milioni di giovani a Copacabana: rivoluzionari perché controcorrenti di una cultura che genera “confusione circa il senso della vita, la disintegrazione personale, la perdita dell’esperienza di appartenere a un ‘nido’, la mancanza di un focolare e di legami profondi”.
Papa Francesco ci richiama alla conversione, affidandoci alla grazia, per essere liberati dagli idoli e riacquistare la vera libertà. Questa rivoluzione della grazia è frutto dell’incontro con Cristo, come non cessa di insegnare e di invitare Francesco, e non esaltazione della volontà (pelagianismo!) o mera sapienza umana (gnosi!). Essa è la sorgente della missione: comunicare il dono dell’incontro con Cristo, “da un traboccare di letizia e di gratitudine” (come si legge nel documento di Aparecida). “Uscire” è il verbo più frequente di Francesco: uscire dalla nostra autosufficienza, uscire dall’autoreferenzialità, uscire dalle “chiesette” autocompiacenti, uscire verso le periferie esistenziali in cui è in gioco la vita degli uomini. Non possiamo non porci le domande che il papa Francesco si poneva a se stesso e ai Vescovi brasiliani: “Il mistero difficile della gente che lascia la Chiesa; di persone che, dopo essersi lasciate illudere da altre proposte, ritengono che ormai la Chiesa (…) non possa offrire più qualcosa di significativo e importante (…). Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni, forse troppo povera per rispondere alle loro inquietudini, forse troppo fredda nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi, forse il mondo sembra aver reso la Chiesa un relitto del passato, insufficiente per le nuove domande (…)”. Queste domande sono come l’eco di quella struggente di Eliot nel coro de “La Rocca”, spesso ripresa da don Giussani: “È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?” o “È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità”. “Serve una Chiesa – proseguiva il papa – che non abbia paura di entrare nella loro notte (….), capace di incontrarli nella loro strada (…), in grado di inserirsi nelle loro conversazioni (…), di far compagnia (…), capace di riscaldare il cuore, di riaccompagnare a casa, (…) di risvegliare l’incanto” per la bellezza della fede. Ha ragione il mio caro amico Lucio Brunelli quando scrive che l’originalità del pontificato è questo essere “il papa dei lontani, il buon pastore delle novantanove pecore che hanno lasciato il recinto”, per cui “non c’è azione o parola di Francesco che non abbia questo orizzonte, questo cuore missionario”.
Questo è il vero cambiamento che lo Spirito sta suscitando oggi nella vita della Chiesa, aprendo enormi possibilità di evangelizzazione. È un cambiamento che non passa in primis dai cambiamenti nella squadra di governo e delle strutture della Chiesa, né degli interventi nello IOR e di altre iniziativa di trasparenza e pulizia, né dalla smontare il pomposo apparato di rappresentanza e di sicurezza. Tutto ciò è però indispensabile perché la libertà e l’esemplarità del Papa si mostri anche come liberazione dalla zavorra di un certo andazzo curiale. C´era bisogno di liberare la fede delle incrostazioni mondane per renderla di nuovo attrattiva. Certo, già i suoi predecessori – scrive il bravo Socci – “hanno iniziato un progressivo smantellamento della pesantezza regale della Curia. Giovanni Paolo II preferiva stare per le strade del mondo, anziché in Vaticano. E Benedetto XVI ha sparato fulmini contro carrierismo, clericalismo, mondanità, divisioni, ambizioni di potere (…) sporcizia nella Chiesa”. Ora papa Francesco realizza quello che il suo predecessore ha chiesto tante volte…e molto di più. Tutto ciò fa parte della “rivoluzione evangelica” che segna un profondo mutamento “del modo stesso di fare il papa”.
Un’ultima annotazione: l’enciclica “Lumen Fidei” è un gesto di straordinaria riconoscenza e di umiltà da parte di papa Francesco. Sebbene la maggior parte del testo è del Vescovo emerito di Roma, il papa Francesco l’ha completato, le ha dato unità e l’ha firmata come la prima enciclica del suo pontificato. Ed è bello che così sia, perché il Magistero di Benedetto ma anche di tutti i suoi predecessori non è cosa di “ieri” ma contemporanei all’oggi della Chiesa. Allo stesso tempo, però, sembra molto importante che la lettura di questa enciclica non si racchiuda in ermeneutiche ed esegesi del pensiero ratzingeriano, a modo un po’ “retrò”, ma venga letta soprattutto alla luce dell’avvenimento del pontificato di papa Francesco, dalle perle delle sue omelie quotidiane, dalle sue catechesi, da quel “uscire” missionario per condividere la luce della fede ad gentes. Oggi la luce della fede risplende grazie alla testimonianza, alle parole, ai silenzi, ai gesti di papa Francesco e rende luminoso questo tempo di grazia e di speranza che stiamo vivendo.
Preghiamo per il papa Francesco!