La preghiera è uscire da sé per incontrare il Signore, vera fonte di Salvezza
La dimensione cristiana dell’ascesi può riassumersi nella parola seguente: la salvezza viene da Dio in Gesù Cristo. Questo significa l’impossibilità umana di impossessarsi di Dio: io non posso che ricevere da Dio ciò che solo Dio mi può dare, cioè la sua parola e il suo amore. L’impossibilità a cui bisogna qui acconsentire ha a che fare con la libertà: la libertà di Dio e la libertà dell’uomo; l’ascesi, a questo livello, non è altro che l’acconsentire a essere se stessi soltanto per la grazia di quell’Altro che ha nome Dio.
Questa affermazione pone in indissolubile rapporto e unità l’ascesi cristiana e la grazia! Tale indissolubile rapporto è sottolineata con forza da un esperto di ascesi come Giovanni Climaco, quando dice: «Che uno possa vincere la sua natura non è tra le cose possibili» . Nulla di prometeico nell’ascesi cristiana! Essa sta all’interno della risposta che l’uomo dà al Dio che per primo gli parla, per primo si rivolge a lui, per primo lo ama, trascinandolo a una comunione di vita con lui e con gli altri uomini. E’ la struttura dell’alleanza che presiede al relazionarsi dell’uomo a Dio, secondo la Bibbia. E come l’affermazione del Dio unico che si è manifestato facendo uscire il popolo d’Israele dall’Egitto implica come conseguenza immediata il rigetto degli idoli per aderire al Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, così la rivelazione del volto di Dio in Gesù Cristo diviene subito esigenza posta al credente: «Se qualcuno vuoI venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). Esigenza che può essere ottemperata, secondo il Nuovo Testamento, soltanto nell’accoglienza del dono dello Spirito che ci guida a vivere non più nella schiavitù alla «carne», cioè all’istinto egocentrico ed egoista, ma nella libertà dei figli di Dio. Infatti, «dov’è lo Spirito del Signore, là è la libertà» (2Cor 3,17).
L’ascesi è finalizzata alla libertà interiore: essa prende sul serio il fatto che non si possono servire due padroni, e che l’alternativa all’obbedienza a Dio è l’asservimento agli idoli! L’ascesi cristiana si colloca all’interno della vita spirituale cristiana, cioè della vita mossa, animata e guidata dallo Spirito santo. Quello Spirito che porta il credente al decentramento del proprio «io» a favore dell’«io» di Cristo, che suscita nel suo cuore la preghiera, che lo guida alla necessaria lotta – a immagine della lotta sostenuta da Gesù, per la forza dello Spirito, contro Satana nel deserto – contro le seduzioni idolatriche e le molteplici tentazioni che lacerano il cuore umano già così diviso. E’ lo Spirito che orienta l’opera di unificazione del cuore nell’obbedienza al comando nuovo dell’amore: «Amatevi come io vi ho amati» (Gv 13,34). E il fatto che l’amore sia un comando, non significa già di per sé la necessità di un’obbedienza posta proprio al cuore di ciò che noi normalmente riteniamo la cosa più spontanea?
L’ascesi cristiana non è affatto un movimento individualistico di autoperfezionamento, ma è il disporre tutto se stessi affinché il Signore, attraverso il suo Spirito, compia la sua opera in noi. Se si dimentica l’aspetto pneumatico dell’ascesi cristiana, si cadrà forzatamente in una visione meritoria, individualistica, antropocentrica, della stessa! Solo l’azione dello Spirito riesce a equilibrare armonicamente fra loro grazia, libertà e ascesi. Forse, su questo punto, noi cattolici occidentali abbiamo da imparare dalla teologia ortodossa. Scrive Pavel Evdokimov:
La grazia presuppone la libertà del volere. La libertà umana e la grazia, nella loro sinergia, si fecondano reciprocamente. La «fatica e il sudore» dello sforzo ascetico, come li chiama Cabasilas, non sono però annullati anche se non diminuiscono affatto la gratuità preveniente dei carismi e la loro priorità. Le «opere», nella spiritualità orientale, non designano assolutamente delle azioni morali, ma l’energia teandrica, l’agire umano all’interno dell’agire divino. Negativamente e vista dal basso, l’ascesi è la «lotta invisibile», senza tregua; positivamente e vista dall’alto, è l’illuminazione, l’acquisizione dei doni spirituali.
Insomma, l’ascesi cristiana non è essenzialmente né «ascesi morale», cioè sforzo di autodominio, né «ascesi cultuale», discendente cioè dagli imperativi di purità cultuale, né «ascesi mistica», mirante cioè ad ottenere un’esperienza estatica, misteriosa, particolarmente intensa, del divino, ma è connessa al mistero pasquale e alla vita trinitaria, e la sua necessità per il cristiano discende dal battesimo10. Il battesimo è l’evento che conformando l’uomo al Cristo lo impegna anche alla lotta della fede, cioè a vivere la fede come lotta spirituale, a crescere alla statura di Cristo, a condurre un’esistenza in stato di conversione. L’ascesi cristiana sta all’interno della vita teologale dischiusa dal battesimo e afferma la necessità di una continua purificazione dell’amore, di un incessante irrobustimento della fede, di un costante rinvigorimento della speranza.
L’ascesi cristiana è lotta e fatica e allenamento, è cioè esercizio continuo del perdere la propria vita, del morire all’uomo vecchio e peccatore che è dentro di noi, un morire per la vita, per la libertà autentica; è esercizio di non riconoscimento di se stessi (cf. Mt 16,24) per una rinascita dall’alto, per essere una nuova creatura in Cristo (cf. Col 3,9-10).
Sì, il cristiano è un discepolo, ma lo deve diventare sempre di più, e questo comporta sforzo, allenamento di spoliazione, di autenticità, di conformità al Signore Gesù. Il battesimo ricevuto è un inizio, non una garanzia acquisita per sempre. Proprio perché l’ascesi sta nello spazio della sequela, non è itinerario di «conquista», di «aggressività», di volontarismo, ma è obbedienza all’iniziativa di Dio, alla chiamata del Cristo, alla grazia preveniente dello Spirito santo (ef. Gal 5,16 e 1Pt 2,21)11.
Dal regime del consumo a quello della comunione
Così intesa, l’ascesi cristiana è partecipazione alle energie della resurrezione, alla vittoria sulla morte ottenuta dal Cristo per tutti gli uomini. I testi neotestamentari che possono essere addotti come fondamento biblico di una «prassi ascetica» indicano la vita cristiana come lotta (Ef 6,10-18), la descrivono ricorrendo all’esempio della competizione sportiva (1Cor 9,24-27), ma soprattutto e sempre la fondano sull’evento pasquale:
Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. Date la morte dunque a quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria (Col 3,1-5).
L’ascesi cristiana si situa tra la fede nella redenzione che per grazia ci è stata ottenuta dal Cristo e il senso del peccato che continua ad agire nel cuore dell’uomo; tra amore alla terra, fedeltà alla storia e attesa escatologica dei cieli e terra nuovi; tra fede nell’incarnazione e speranza escatologica. L’ascesi è il collocarsi consapevolmente, da parte del credente, nel mondo senza essere del mondo; è l’aprirsi all’opera di santificazione dello Spirito che ci spoglia realmente e concretamente del nostro uomo vecchio per renderci somiglianti al Cristo guidandoci a vivere da figli di Dio. Essa poi è costitutivamente evento ecclesiale e comunionale, non individuale! Tende anzi alla trasformazione dell’individualità biologica in evento di relazione e di comunione: il digiuno, la preghiera e la veglia, l’obbedienza, la castità, la povertà, cercano di attuare nel credente il passaggio pasquale dal regime del consumo a quello della comunione. Grazie all’ascesi è fissato un limite alla cosificazione di ciò che ci sta attorno ed è possibile vederlo «altro» rispetto a ciò che si può «prendere, possedere, consumare e buttare»: è possibile cioè vedere nelle creature delle «parole» mute della Parola e quindi chiamarle in modo nuovo. Senza ascesi tutte le cose sono opache e non c’è possibilità di comunione con esse.
E’ la comunione lo scopo di tutta la vita cristiana. Per questo i padri monastici hanno sempre messo in guardia dall’assolutizzazione dell’ascesi stessa (tentazione luciferina che porta all’idolatria più pericolosa) e collocandola al suo posto all’interno della vita cristiana, cioè tra i mezzi, gli strumenti della comunione. Riguardo, per esempio, al digiuno, così scrive Isidoro Presbitero: «Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi». E Iperechio: « E’ cosa buona mangiare carne e bere vino, e non mangiare con la maldicenza la carne dei fratelli». Infatti, scrive Clemente Alessandrino: «Il digiuno significa astinenza dal cibo, ma il cibo non ci rende né più giusti né più ingiusti».
Un anziano disse: «… Molti hanno prostrato il loro corpo senza alcun discernimento, e se ne sono andati senza trovare alcunché. La nostra bocca esala cattivo odore a forza di digiunare, noi sappiamo le Scritture a memoria, recitiamo tutti i salmi … ma non abbiamo ciò che Dio cerca: l’amore e l’umiltà».
L’ascesi cristiana rifiuta nel modo più netto la causalità tra sforzo e risultato. Pensare che il progresso spirituale sia ottenuto all’uomo dal suo sforzo ascetico significa restare nell’ottica della chiusura in sé, della philautìa, dell’affermazione di sé, che è appunto ciò che l’ascesi rettamente intesa vuole abbattere. In questo senso, abissale è la distanza fra l’ascesi cristiana e le forme di nuova religiosità (si pensi a quella nuova sensibilità religiosa che va sotto il nome di New Age), spesso neognostiche e panteistiche, ispirate al principio religioso olistico, in cui all’adepto è data come finalità la propria stessa soggettività e in cui la liberazione non consiste nell’uscire da sé per entrare in relazione con il Signore, da cui soltanto viene la salvezza, e in comunione con i fratelli, ma diventa una vera e propria autoliberazione in cui Dio arriva a coincidere con l’«io»