Uno studio sulle espressioni scomparse rivela che la “logica efficientista” ci sta rendendo più individualisti e competitivi e meno educatiE' di qualche giorno fa la pubblicazione di un articolo sulla scomparsa di alcune parole e concetti, così come di prassi comportamentali, dalla vita quotidiana. In uno studio di google apparso sul Washington Post e ripreso dal Corriere della Sera, il nostro lessico sembra impoverirsi di “solidarietà” e arricchirsi di “individualismo”. Ma è così? E cosa comporta davvero per noi? E' un fatto di costume o c'è qualcosa di più profondo? Aleteia ne ha parlato con la professoressa Raffaella Petrilli, docente di Semiotica all'Università della Tuscia e di Filosofia antica presso il Pontificia Università Antonianum di Roma.
Professoressa Petrilli, le trasformazioni sociali cambiano la percezione del mondo e dunque le parole per raccontarlo, ma è anche vero l'inverso, cioè l'uso di alcune parole e non altre trasforma il nostro modo di vedere le cose. Le parole influiscono sulla realtà?
Petrilli: Il rapporto tra le parole e il mondo è forte e complesso per essere descritto in breve senza rischiare l'imprecisione. Lei mi chiede in che senso va questo rapporto: se va dalle parole al mondo, cioè se il nostro modo di parlare o le parole che usiamo trasformano il nostro modo di vedere il mondo. Per rispondere, mi permetta di distinguere tra linguaggio e parole, e di fare due esempi.
Di recente, la paleontologia ha formulato l'ipotesi che se tra tutte le specie di ominidi che sono esistite solo la specie “Sapiens Sapiens” è riuscita a non estinguersi è perché solo l'Homo Sapiens Sapiens possedeva un cervello capace di combinare la pianificazione di azioni complesse con il linguaggio, cioè con la capacità di comunicare le idee da un individuo ad un altro del gruppo. I Neanderthal, gli Ergaster o gli Erectus non lo hanno fatto, non avevano il cervello adatto, e si sono estinti. Ecco un bell'esempio di quanto il linguaggio incida sulla nostra realtà, in modo radicale, direi.
Il secondo esempio è questo. Il linguaggio segue la complessa realtà contemporanea: persone, cose, oggetti, attività semplici e complesse con i loro nomi altrettanto semplici (forchetta) o altrettanto complessi (osteosintesi). Ma il linguaggio non è fatto solo di parole, è fatto di comportamenti linguistici diversificati (scrivere, leggere, parlare in pubblico, alla radio, scrivere/leggere discorsi, relazioni, bilanci etc.). Per sintonizzarci con la realtà, dovremmo essere in grado di gestirli tutti con abilità, e penso soprattutto ai giovani che in questa realtà devono riuscire a inserirsi. Come riuscirci? Con una buona, seria alfabetizzazione, che significa accesso al linguaggio, competenza nella lettura e scrittura così come nella parola parlata. Ma i dati ci dicono che più della metà degli italiani è ancora formata da “analfabeti funzionali” (leggono ma non capiscono, e infatti, come si sa, non leggono e guardano la tv…). Al 60% degli italiani analfabeti funzionali il mondo sfugge, si sottrae. Non possono interagire, interpretarlo, capirlo. Restano ai margini.
Se usiamo meno le parole riguardanti la sfera comunitaria, che ne è dei rapporti sociali?
Petrilli: Se si riferisce alla notizia riportata il 14 luglio dal “Corriere della Sera”, dove si legge che «si è scoperto come alcune parole siano lentamente state dimenticate e altre si siano invece imposte nel linguaggio comune…», direi proprio che non è una scoperta, e se la vogliamo chiamare così, allora è la scoperta dell'acqua calda! Non s'è mai vista una lingua che non perda parole (vecchie) e che non ne accolga di nuove. Mai. Del resto, gli autori dell'indagine riferita dal “Corriere” non sono linguisti, ma psicologi, ed evidentemente hanno poca dimestichezza con le scienze del linguaggio. Detto questo, non c'è nessuna prova serie che le parole che denominano la sfera dei rapporti interpersonali siano diminuite in epoca contemporanea. Il problema semplicemente non c'è. E' possibile invece che le modalità dei rapporti interpersonali cambino, e cambino anche i modi di parlarne. Questo sì, questo è possibile, anzi, direi, ineliminabile.
Viviamo in una società sempre più “1egoistica”, eppure il senso di appartenenza a gruppi più vasti non ci abbandona, cosa ne pensa?
Petrilli: Penso che il senso di appartenenza sia un dato antropologico e culturale ineliminabile, quindi stabile per l'essere umano. Per ragioni biologiche, cognitive, culturali e sociali, l'essere umano è animale sociale, e non può non vivere l'appartenenza a un gruppo. Ciò che è vero è che questo profondo e ineliminabile senso di appartenenza trova forme nuove per manifestarsi. Qualche tempo fa circolavano interessanti studi sui molti festival della scienza, della letteratura, della poesia, dell'economia … che si sono diffusi nelle nostre estati recenti. Affollatissimi e molto graditi, in ogni parte d'Italia. Perché? Ma perché sono vissuti come attività capaci di realizzare l'“appartenenza” e l' “identificazione” a un gruppo (gli amanti della letteratura, della poesia, dell'economia, della filosofia….). Dunque, perché spaventarsi inutilmente?
La crisi che stiamo vivendo o rende ancora più egoisti oppure riapre alla collaborazione e alla condivisione. Veniamo da un ventennio molto spostato sull'individuo, torneremo a "parlare" di comunità?
Petrilli: La crisi, come ogni altro fatto storico, concorre a rimodellare lo stato delle cose, costringe a rivederlo, rielaborarlo, a trovare soluzioni nuove. Non migliori o peggiori in assoluto, diverse. Di sicuro una crisi grave, come quella che stiamo vivendo, accelera la necessità di cambiamento e riadattamento, e rende ancora più grave la mancanza di strumenti per leggerla, capirla, pensarla, cioè la mancanza di linguaggio e di competenza nel suo uso. Per pensare qualunque cosa, anche l'altro e il rapporto che si ha con l'altro, serve la capacità di comunicare con l'altro. Ce lo ha insegnato l'Homo Sapiens Sapiens che ha saputo sopravvivere grazie al linguaggio.