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Il reato di clandestinità intasa le aule di giustizia e ostacola il lavoro

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Chiara Santomiero - pubblicato il 16/07/13
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L’appello di Famiglia cristiana per l’abolizioneE' stato papa Francesco a riaprire con forza la questione dell'immigrazione con la scelta di recarsi a Lampedusa per piangere i migranti che sono morti nel tentativo di raggiungere l'Italia e il severo monito contro la “globalizzazione dell'indifferenza”. Un invito implicito alle istituzioni a regolamentare la questione immigrazione non più nell'ottica dell'emergenza e della difesa dei confini ma secondo il rispetto dei diritti umani che ha suscitato reazioni contrastanti nel mondo politico.

Il 13 luglio Famigliacristiana.it ha lanciato un appello per l'abolizione del reato di clandestinità che ha già raccolto 1335 adesioni comprese molte personalità del mondo ecclesiale, delle istituzioni e della cultura. Per la pubblicazione on line dei paolini sono almeno cinque i motivi che giustificano l'abolizione: 1. Non serve per contenere l'immigrazione illegale. 2. Anche senza il reato, ci sono regole precise (fermo, detenzione nei Cie, identificazione ed espulsione immediata) per trattare gli immigrati irregolari. 3. Il reato di clandestinità ha aggravato la già grave situazione delle carceri italiane. 4. È disumano mettere in galera un migrante senza dargli la possibilità di dimostrare che ha diritto all'asilo umanitario o allo status di rifugiato. 5. Se il reato fosse stato in vigore altrove, milioni di nostri antenati sarebbero stati in prigione in Usa, Argentina, Brasile e nei molti altri Paesi dov'erano emigrati.

E' stata la legge 94 del 15 luglio 2009 – il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” – ad introdurre nell'ordinamento italiano il reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», provvedimento sul quale si sono abbattute da subito bocciature importanti (Corte Costituzionale nel 2010 e Corte di Giustizia europea nel 2011 e nel 2012). Secondo i dati di Famigliacristiana.it (che riprende quelli elaborati dalla Direzione generale della giustizia penale del Ministero di Giustizia) la legge ha fallito proprio nell'obiettivo principale che era quello di ridurre il flusso di immigrati clandestini. In modo paradossale, nel periodo in cui non c’era questo reato il numero di espulsioni per coloro che si trovavano in Italia in maniera irregolare era addirittura maggiore: 49 per cento nel 2003 contro il 28 per cento del 2012.

Al di là dei profili etici legati alla necessità per tanti giovani uomini e donne di sottrarsi con la migrazione al pericolo di morte, per Michele Vietti, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura che condivide l'appello, «immaginare che la condizione di clandestinità, connessa al semplice ingresso nel territorio dello Stato senza autorizzazione, sia di per sé un reato, significa estendere in maniera eccessiva l'ambito del diritto penale, senza peraltro disporre degli strumenti applicativi». L'effetto di trasformare in reato quella che era stata pensata solo come aggravante, inoltre «è stato quello di intasare sia gli uffici del giudice di pace, competente a conoscere di quei processi, sia i centri di identificazione, tristemente oggetto di mai sopite polemiche sulla loro natura e sulla loro gestione». Ne deriva che «il diritto penale deve perseguire singoli atti criminali, non situazioni soggettive legate ad esigenze migratorie che, se anche non assurgono tutte alla condizione legale di rifugiati o asilanti, hanno quasi sempre alle spalle condizioni di necessità».

Non è un caso, come sottolinea Famigliacristiana.it, che tra le proposte contenute nel programma di depenalizzazione dei reati redatto dall’apposita commissione incaricata dal ministero della Giustizia nel novembre 2012 e presentato il 23 aprile scorso c’era quello di depenalizzare il reato di immigrazione clandestina trasformandolo in illecito amministrativo.  Allo stesso modo il reato di clandestinità viene bocciato dalla Fondazione Ismu (www.ismu.org che si occupa di studi sull'immigrazione) insieme ai criteri della Bossi-Fini sui flussi in quanto meccanismi inadeguati a gestire le politiche migratorie in vista dell'accesso dei lavoratori stranieri e il contenimento dei flussi irregolari.

Sui diritti dei lavoratori si sofferma anche Piero Martello, presidente del tribunale del lavoro di Milano intervistato da Famigliacristiana.it: «Il clandestino, che comunque lavora e che talvolta lo fa alle dipendenze di ex immigrati o addirittura ex clandestini – ulteriore problema di cui bisogna prendere atto con più forza – è, così, ancora più debole. Il suo stato di clandestino determina una “ricattabilità” che lo induce a non reagire di fronte a trattamenti deteriori e ad accettare condizioni umilianti: viene sottopagato, per esempio, e ha orari di lavoro lunghissimi. Inoltre, la clandestinità diventa un motivo di speculazione perché il datore di lavoro privo di scrupoli può arrivare a farsi anche pagare pur di garantirsi la cosidetta emersione che gli può essere richiesta, come nei casi delle sanatorie». Per questo l’abolizione del reato toglierebbe al datore di lavoro la possibilità di comprimere i diritti del lavoratore, già una realtà diffusa a causa del fenomeno rilevante del “mercato nero” ma che con il migrante arriva fino a determinare «l’invisibilità della persona».

L'iniziativa di Famigliacristiana.it è stata bollata da laPadania (14 luglio) come «ideologica». Il giornale della Lega titola «Clandestini e cittadinanza il solito buonismo» per stigmatizzare insieme alla richiesta di abolizione del reato di clandestinità anche l'appello della presidente della Camera, Laura Boldrini, a favore di una legge di cittadinanza che riconosca lo ius soli, il diritto di acquisire la cittadinanza del luogo in cui si nasce. Secondo l'opinione del leghista Gianluca Pini, riportata nell'articolo, le emergenze da affrontare «non sono certo la cittadinanza o il reato di clandestinità ma il lavoro, la crisi delle imprese del nord e la tenuta dello Stato sociale minato proprio da un'orda incontrollata di immigrati».

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