L’esperienze pastorali e missionarie nel paese che accoglie la Gmg e papa Francesco
di Sante Altizio
Era il febbraio del 2006. Mentre a Torino impazzavano le Olimpiadi invernali, mi trovavo a Manaus: 35 gradi e umidità che sfiorava il 100%. Stavo facendo un sopralluogo per un documentario che avrei girato l’anno successivo. Avrei dovuto raccontare un secolo di storia missionaria cappuccina nell’amazzonia brasiliana.
Facevo base nel convento situato nel centro della città, proprio di fronte allo storico teatro Amazonas. I cappuccini hanno, da quando sono arrivati in Amazzonia nel 1908, anche la gestione della Parrocchia di San Sebastiano, che è proprio accanto al convento e affaccia sulla piazza.
Frei Arequi, classe 1955, è un cappuccino amazzonese, insegna teologia e, allora, viveva a San Sebastiano. Mi sembrava l’interlocutore perfetto al quale fare una domanda semplice quanto nodale, per un torinese di passaggio laggiù: “Com’è possibile che qui in Brasile andare a messa sia così affascinante, mentre da noi si rischi lo sbadiglio?”.
Ha sorriso e mi ha detto: “Noi camminiamo portandoci sulle spalle meno di 500 anni di storia cristiana. Voi duemila. Tutto qui. Siamo una chiesa ancora giovane, magari a volte ingenua, irruenta, impulsiva, proprio come i giovani sono. Ma corriamo più veloce di voi”.
Frequento il Brasile dal 1994. In quell’anno a Rio de Janeiro ho incontrato padre Clodovis Boff, fratello di Leonardo, il teologo, ex francescano, che è stato uno dei pensatori più illustri tra i sostenitori della “Teologia della liberazione”. Era un Brasile assai diverso da quello di oggi. Era un paese dilaniato dalla povertà, e padre Clodovis mi disse: “Qui la lotta di classe non è teoria, è realtà. Qui i ricchi opprimono i poveri. Noi, uomini di Chiesa, siamo chiamati a scegliere da che parte stare. Teologia della liberazione? Io la chiamo: teologia con i piedi per terra”.
Ieri, come oggi, però, anche ad un osservatore che poco o nulla sa della vita della chiesa brasiliana non può sfuggire un elemento cardine: la gente riempie le chiese. Partecipa, è protagonista. Costruisce la liturgia. E i documenti delle conferenze episcopali regionali del Brasile affrontano i temi caldi della società. C’è concretezza, praticità, condivisione, coinvolgimento.
Un altro dato, registrato girando per il Brasile: l’ateismo non esiste, o quasi. “In un Dio, in un qualunque dio, uno deve pur credere! Chi ci ha messo sulla terra? ”. Me lo disse una signora di Belo Horizonte alla quale cercavo di spiegare che, nell’Occidente industrializzato, non tutti credono necessariamente in un dio. Aveva uno sguardo di sincera compassione, quasi incredula. “Poveretti”. Concluse.
In tutte le case del Brasile, davvero in tutte, c’è una statua della Madonna Aparecida. Comprese le case dei protestanti, anche nelle case dei pastori improvvisati di una delle tante sette che nascono e muoiono ogni giorno per il paese.
L’elemento religioso è nel DNA brasiliano. Non esiste alcun dibattito sulla laicità dello Stato, sull’ingerenza della Chiesa. Nessuno vaneggia di “sbattezzamenti” o simili. Anzi, la conferenza dei vescovi brasiliani è un punto di riferimento chiarissimo per tutti. La distanza tra vertice e base della chiesa sembra breve, molto più breve di quella alla quale un cattolico italiano è abituato.
Sempre nel convento cappuccino di Manaus, ma due anni fa, ho trovato, nella sala lettura un libro edito dalle Edizioni Paoline del Brasile. Era un manuale: “Come accompagnare le vocazioni omosessuali”.
Sebbene abituato a farmi sorprendere dallo spirito gladiatore della chiesa locale, ho sobbalzato. Ed ho iniziato a leggere. Un testo semplice, lineare, utile ai formatori che si trovano di fronte a un aspirante sacerdote, religioso, religiosa che afferma di essere omosessuale.
Ne ho parlato con un giovane missionario italiano. Ero sorpreso, gli ho chiesto un parere. “Cosa ti devo dire? All’inizio ero sorpreso anche io. Poi devi mettere da parte ciò tutto ciò che hai studiato, letto, imparato, ipotizzato in Italia, e devi fare i conti con la realtà. Che è questa: bella, perché la fede qui non è un corollario, ma il centro della vita delle persone, ma complessa. Molto complessa”.
Il Brasile è un continente. Le differenze che passano tra un indio Yanomani che vive al confine con il Venezuela senza conoscere l’uso della ruota e un gaucho di Porto Alegre, con il cognome polacco, che mangia currasco tutti i sabato sera, sono immense. Sono assai più simili un pescatore norvegese e uno di Mazara del Vallo.
In Brasile, vale la pena ricordarlo, da diversi anni, si combatte una guerra di religione tra cattolici e sette cristiane di variegata origine protestante. Una guerra a bassa intensità, ovviamente, ma che marca i territori e divide le comunità. Per comprenderlo basta un telecomando. La tv è il campo di battaglia preferito. Sono decine le emittenti nazionali e regionali che, tutti i giorni, a tutte le ore, offrono predicatori più o meno credibili, e tutti, ovviamente, portatori dell’unica, indiscutibile luce salvifica.
La Chiesa Cattolica brasiliana, le va dato atto, si è lanciata nella mischia. La sua presenza in tv è significativa e di qualità. Se sul canale 8 trovi il telepredicatore della chiesa “Dio è amore”?, sul canale 9, troverai TV Aparecida, in diretta da San Paolo, il cuore della cattolicità brasiliana, con una telepredica da audience garantita.
Si tratta di una chiesa cattolica coraggiosa, audace, a volte forse sfrontata. Ma la gente la apprezza per questa, non si sente sola e partecipa. A Rio, dalla prossima settimana, ce lo dimostreranno.