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La società neo-tribale e i fashion victim stagionali

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Rodolfo Papa - pubblicato il 15/07/13
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In tempi di dittatura del relativismo, in cui proporre soluzioni e affermare valori risulta quasi intollerabile, anche nel campo dell’arte andrebbero ribaditi alcuni principi regolatori non negoziabili

Nelle due parti precedenti
di questo articolo – "
Andy Warhol e l’arte venduta al mercato" e "
Qual è la differenza tra arte cristiana e revival?"
, abbiamo sottolineato che i complessi rivolgimenti occorsi negli ultimi centocinquanta anni non hanno avuto l’esito finale di esprimere un nuovo sistema filosofico e/o un nuovo sistema artistico, ma di fatto hanno condotto ad un totale assorbimento nel mercato. Il mercato si presenta ormai come l’unico criterio ontologico per identificare le arti.
La proposta di cambiamento all’origine della modernità, che nasceva come soluzione elitaria e rivoluzionaria, autoassegnandosi il compito di cambiare il mondo, ebbe il progetto di pensare un sistema di valori alternativo a quello tradizionale ma, essendo sintomo non già di una spinta propulsiva feconda, quanto piuttosto di un disagio e di una decadenza in atto, finì di fatto con l’asservimento globale alle regole del mercato. Tutto è divenuto prodotto di consumo. Oggi non è neanche più significativo se tale consumo sia “di massa”, perché è il marketing a stabilire la fetta di mercato in cui collocare il prodotto, di qualunque tipo esso sia: cibo, divertimento, vacanze, musica, letteratura, pittura, filosofia, politica o religione. Il mercato viene definito come la massima espressione della democrazia. Quindi non esistono più cittadini, cultori di una disciplina, fedeli, studenti o professori: ma solo consumatori. Tutto viene realizzato in nome del profitto e con le regole del profitto. L’eventuale mercato culturale, letterario o artistico, è determinato non da principî morali, etici o estetici, ma più banalmente dal marketing. Tutto deve essere appetibile per essere consumato; deve essere “sexy” per essere desiderato. Ormai raramente si vedono progetti ad ampio respiro, monumenti che richiedono decenni per essere realizzati, in quanto tutto deve rispondere alle tre regole fondamentali del consumismo: Easy, Fast and Pop. Tutto deve essere facile, non complicato, velocemente consumabile, e, soprattutto, non deve mai porre problemi al “consumatore”, non deve porlo di fronte ad una scelta o ad un tempo per pensare, tutto deve rimanere incolto, volgare, “popolare”, nel senso che il “consumatore” non deve mai pensare, altrimenti recupererebbe una coscienza individuale. Ogni aspetto propriamente “culturale” o “impegnato” viene anch’esso proposto all’insegna dell’estrema leggerezza, del divertimento e del consumo; tutto viene offerto entro il format del festival: musica, letteratura, filosofia, politica, arte, teologia …
La cornice globale è quella della “tolleranza”, perché il mercato non può ammettere intolleranze, tutto deve essere consumato anche se immorale o dannoso alla salute; il mercato vende i prodotti, insieme agli antidoti per renderli tollerabili. Tale condizione serve per mantenere lo stato di fatto in una illusione di ordine apparente, ma nel frattempo sta pericolosamente mostrando in tutto l’Occidente segni preoccupanti di intolleranza o di tradizionalismi etnici, politici e/o religiosi di vario segno e di varia natura. Il vero volto di questa situazione è la “dittatura del relativismo”, come Benedetto XVI ha denuncia a lungo. La forzata impossibilità di uscire dalla condizione post-moderna, come se in definitiva fosse il vero ed ultimo esito degli ultimi due secoli di rivoluzioni, sta impedendo la naturale tendenza dell’uomo a mettere in ordine il mondo che lo circonda, superando il caos. Questa necessità che è spirituale, e poi psicologica e solo successivamente politica, si sta manifestando in maniera confusa e distonica, da molte parti e con molti aspetti a volte anche inquietanti. Tanto disagio e tanta sofferenza sono realmente tangibili nel mondo che chiamiamo economicamente e tecnologicamente sviluppato.

C’è una necessità definitoria nell’uomo che va oltre la contingenza fluida e impalpabile del mondo presente. Anche se la società contemporanea, secondo la ormai affermata terminologia del sociologo Zygmut Bauman, è una “società liquida”, “neotribale”, dove la consistenza degli «sforzi di autocostruzione, e l’inevitabile inconcludenza e frustrazione di questi sforzi conducono al loro smantellamento e rimpiazzo»[1], ciononostante si fa largo in controtendenza una necessità di definire dei termini sui quali poggiare le scelte individuali e quindi il senso dell’agire e del fare, ed anche del fare artistico. Anche se tutto della realtà che ci circonda sembra mostrare che è impossibile affermare la certezza di una verità, in realtà sappiamo che senza una minima azione di giudizio, senza la condivisione di verità anche minime, è impossibile fare, commissionare e fruire arte.
Del resto, lo stesso Bauman, precisa che la condizione neo-tribale non significa che non esista una tensione verso l’autocostruzione, ma il fatto stesso che tale tensione venga costantemente frustrata dal fallimento e dalla dissolvenza delle tribù nel giro anche di pochi anni, nel tempo di una moda stagionale, non significa che questa tensione non ci sia. A mio avviso, significa in realtà che l’insopprimibile sete d’infinito che l’uomo porta con sé, ha necessità di trovare un approdo. Però l’approdo viene ostacolato dalla “intolleranza”, imposta dalla “dittatura del relativismo”, nei confronti della “necessità definitoria”. Siamo di fatto ben coscienti che proporre soluzioni e affermare valori è intollerabile per la struttura contemporanea delle coscienze individuali. Appare ancora attuale quanto scriveva Hans Jonas nel Il principio responsabilità nel 1979, sebbene allora il mondo fosse geo-politicamente diverso, perché si confrontava ancora con i blocchi contrapposti demarcati dal muro di Berlino; Jonas affermava che si può reagire all’utopia del progresso tecnologista materialista, contrapponendo al principio speranza, non il principio paura, ma il principio responsabilità, in quanto « lo spirito della responsabilità respinge il verdetto precipitoso dell’inevitabilità e a maggior ragione rifiuta che venga sancito dalla volontà come conseguenza di quella supposta inevitabilità, poiché intende porsi dalla parte della storia. (La storia poi potrà mostrarsi anche troppo disponibile a schierarsi a favore di una resa di quello spirito, a meno che non preferisca offrire una delle sue sorprese)»[2].
Per fondare un vero principio di responsabilità è necessario conoscere e definire, superare cioè l’indistinta confusione dei termini e organizzare un ordine capace di contenere un corretta visione della natura e di conseguenza la capacità di sviluppare un giusto e sano umanesimo. Occorre evitare di cadere negli opposti eccessi, come ammonisce Benedetto XVI: «né cadere in una superbia che disprezza l’uomo e non costruisce in realtà nulla, ma piuttosto distrugge, né abbandonarsi alla rassegnazione che impedisce di lasciarsi guidare dall’amore e così servire l’uomo»[3].
Ci sono domande di fondo che vanno poste e per le quali si devono cercare risposte chiare ed esaustive. Se vogliamo ridare slancio alla cultura, se vogliamo dare nuova vita all’arte per poi muovere verso una più proficua azione per far rinascere il sentimento giusto capace di promuovere veramente l’arte sacra nella cattolicità, allora occorre partire dalla consapevolezza della situazione contemporanea, evitando azioni revansciste o nostalgiche. Ce lo insegna la statica: quando un sistema rigido si inserisce in un sistema elastico, accade che il sistema elastico non riesca a tollerare le spinte del sistema rigido se sottoposto a sollecitazioni, e così si determina il crollo del manufatto. Ogni volta che inseriamo un sistema rigido in un contesto elastico o addirittura fluido come è il nostro, il risultato è quello di una intollerabilità che non produce alcun effetto se non quello di far sembrare ridicola e anacronistica la soluzione. C’è necessità, invece, di promuovere un movimento che scuota le coscienze e le indirizzi rapidamente ad una azione di preparazione culturale alla rinascita, una sorta di preparazione al parto. Tutto deve essere in movimento, ma con la finalità di costruire un preambolo –un addensamento- capace di accogliere in seguito i primi vagiti di soluzione ai problemi posti dalla nostra attuale condizione.

Potremmo quindi dire, che per proporre una narrazione vera[4] dell’arte e della sua storia, prima di tutto occorre individuare dei preambula narrationis, e dopo, soltanto dopo, si potrà snodare la vera e propria narratio historiae dell’arte sacra, in cui si mostrano i principi proposti dal Magistero della Chiesa e gli exempla offerti dalla tradizione. La riflessione sulla contemporaneità impone la scelta non di soluzioni definitive, rigide e quindi automaticamente inaccettabili, ma piuttosto di un percorso, di un movimento finalizzato, l’individuazione di principî forti attorno ai quali far coagulare gli interessi degli artisti e dei committenti -che negli ultimi decenni sono stati abbagliati solo da soluzioni facili e poco concrete, affascinati dalla notorietà di nomi, legata non ad effettive qualità e valori, ma solo al mercato-. In modo particolare, la questione dell’arte sacra non può essere risolta con il reclutamento di stars e starlette dell’ultima moda consumistica contemporanea, e neanche con lo scimmiottamento di sistemi d’arte, che nulla hanno in comune con il sentire cattolico, con Magistero e con il catechismo della Chiesa.
La scelta di produrre una vera e proficua analisi, capace di rintracciare e promuovere i principi fondativi e peculiari dell’arte sacra cattolica, non è dettata solamente dalla opportunità di scientificità e di correttezza, ma anche e soprattutto dalla necessità di operare una distinzione all’interno del campo artistico, al fine di giungere alla scoperta di principî originari propri dell’arte cristiana. Come insegna Benedetto XVI, ci sono valori non negoziabili che sono l’identità del cristiano. Anche nel campo dell’arte, esistono principî regolatori non negoziabili, che se messi di nuovo in circolo offrirebbero la possibilità di muovere verso, di portare a; si avrebbe la possibilità di reintrodurre il lievito nella farina per far fermentare l’intera pasta, per infornare a tempo opportuno un pane “tanto antico, quanto nuovo”. 

——
1) Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, Torino 2010, pp. 275-6.
2) Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2009, pag. 284.
3) Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas est, Citta del Vaticano 2006, II, 36.
4) La questione del rapporto tra narrazione storica e principî critici è una delle maggiori questioni storiografiche che ha impegnato ed impegna gli storici e i filosofi dell’arte da Heinrich Wölfflin fin ad Arthur Coleman Danto nei nostri giorni.
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