separateurCreated with Sketch.

Nel femminicidio, il cortocircuito del conflitto relazionale

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Tonino Cantelmi - pubblicato il 08/07/13
whatsappfacebooktwitter-xemailnative

Uomini feriti nel loro narcisismo. Catene di dolore che nessuno sa interrompere. Servizi di cura mentale allo stremo delle forze

Uccise perché donne. E uccise da una persona che in un tempo passato le ha amate, forse troppo e forse male. Questo è il femminicidio: l’omicidio di una donna che matura nell’ambito di una relazione di amore in fase di deriva. Gli eventi di cronaca degli ultimi tempi ci segnalano una serie di delitti di questo tipo che ha impressionato gli italiani. I numeri dicono che ogni due o tre giorni una donna viene uccisa in Italia da un ex marito o da un amante respinto. Uomini feriti nel loro narcisismo, troppo fragili per gestire la frustrazione relazionale, dominati dall’incoercibile bisogno di affermare se stessi attraverso la violenza.

Le vittime in genere hanno chiesto aiuto, molti sapevano, tanti gli indizi di una tragedia incipiente: ma nessuno è intervenuto. Ecco il primo mito da sfatare: giornalisti, per favore, basta con il raptus! Tutto è stato largamente annunciato, tutto era purtroppo prevedibile: no, non si tratta di raptus, ma di catene di dolore che nessuno può o sa interrompere. Certo, questa incredibile cecità ci interroga. In fondo siamo sempre connessi, sempre in relazione, sempre incessantemente lì a twittare, postare, chattare, eppure siamo sempre più soli.

E ancora di più: l’elefantiasi dei nostri “io” ci spinge verso un individualismo esasperato, che sembra soppiantare ogni forma di solidarietà. Ma al netto di tutto ciò, perché il grido di aiuto delle vittime non viene raccolto? Forse perché ancora prevale una mentalità derivata da un misto di accondiscendenza, paternalismo e buonismo: sì, è un po’ violento, ma su, con un po’ di buona volontà si rimette tutto a posto. E invece no. Se in una relazione c’è violenza, mi spiace, ma la tolleranza non può che essere zero. E questo vale anche per le donne che subiscono: subire non ha senso. Denunciate piuttosto.

I politici ci promettono più attenzione per questo fenomeno e qualche ministro propone nuove strutture e nuovi interventi: nel migliore dei casi ignoranti o ingenui, nel peggiore ipocriti. O forse entrambi. In Italia c’è già una legislazione efficace: occorre però potenziare quelle strutture che già ci sono e che sono colpevolmente trascurate. Gli stessi politici e ministri dovrebbero chiedersi perché i servizi per la salute mentale in Italia sono ridotti allo stremo delle forze: sotto organico, senza finanziamenti, umiliati nella logistica (i locali più squallidi di una ASL vengono adibiti a servizi per la salute mentale). Ci sono già associazioni, telefoni, sportelli, centri antiviolenza: perché non potenziarli? Perché non finanziare e non mettere in grado i Dipartimenti per la Salute Mentale, sì, le strutture pubbliche, di funzionare, restituendo loro il compito di riorganizzare una rete territoriale efficace per contrastare il disagio psichico e sociale che sottende la violenza relazionale?

Tuttavia questo non può essere ancora sufficiente senza una prevenzione ed una educazione alla relazione, che non può non iniziare già nell’infanzia. Pensiamo al fenomeno della erotizzazione precoce dei bambini, bombardati troppo e troppo presto da immagini, stimoli, contenuti erotici espliciti. Che idea del corpo (e in particolare del corpo femminile) si costruiscono i nostri figli? Nel femminicidio assistiamo increduli al cortocircuito del conflitto relazionale: uomini fragili, ma aggressivi, feriti in modo insopportabile nel loro narcisismo e che non possono tollerare la frustrazione relazionale, aggrediscono sino alla morte vittime, che a loro volta non riescono a svincolarsi dalla morsa di una relazione ormai degenerata. In questo c’è una complessiva incompetenza relazionale, che ci spinge a chiederci che tipo di società stiamo costruendo. Forse dovremmo spostare l’asse già nell’infanzia verso una educazione alla solidarietà ed al rispetto dell’altro, parole queste desuete e soppiantate da altre, come competitività, successo e altre simili. Tutto ciò non può prescindere perciò da una rivisitazione dei percorsi educativi nel loro complesso. E da una rivisitazione dei modelli e degli stili di vita che proponiamo. Perciò io credo che ogni femminicidio sia una sconfitta che interpelli tutti e che segnala la progressiva perdita di umanità, che sembra connotare questa epoca postmoderna e tecno liquida.

Top 10
See More