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Cattolici «à la carte»: certezze e contraddizioni della religiosità degli italiani

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La Civiltà Cattolica - pubblicato il 05/07/13
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Tra cattolicesimo del fare e dell’apparire, atei devoti e credenti anticlericali, una realtà vitale ma che fatica a trovare responsabili e referenti politici

Inutile dire che ci sono molti tipi di cattolici; in particolare c’è un cattolicesimo del fare e un cattolicesimo dell’apparire, assai diversi tra loro. Soggiacente al lavoro (Il Vangelo secondo gli italiani. Fede, potere, sesso. Quello che diciamo di credere e quello che invece crediamo, ndr) è l’idea che l’Italia già da tempo non può più dirsi un Paese cattolico, anche se «non si può sottovalutare l’influenza che la cattolicità, intesa sia come Chiesa di Roma e patrimonio dottrinale sia come modo di relazionarsi con il nuovo, continua ad avere nei confronti del nostro Paese nel suo insieme» (p. 8). In realtà, usando le stesse parole, gli italiani intendono ormai realtà diverse: termini come famiglia, Chiesa, vita, legalità, non hanno lo stesso significato per molte persone. Dirsi cattolici perciò oggi dice poco. Si ammette però che «i cattolici siano quasi del tutto irrilevanti sul piano politico e culturale (sul sociale invece anche il più accanito anticlericale dovrà ammettere che i cattolici sono una presenza radicata, efficace e fondamentale: pensiamo solo al mondo del volontariato e del Terzo settore)» (p. 14). Ma la lezione che occorre ricavare dai nostri tempi è quella del pluralismo.

Gli italiani non hanno la vocazione al dissenso o allo scisma. La Chiesa del dissenso è ben poco frequentata da noi. In Italia non c’è nessuno scisma. Nessun cattolico senza Papa. Le statistiche almeno sono chiare: l’88 per cento degli italiani si dichiara cattolico; l’80 è favorevole a mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche e negli uffici pubblici; l’85 per cento dell’8 per mille va in media alla Chiesa. Secondo un’indagine europea, gli italiani hanno il primato della religiosità nel continente: l’85 per cento dichiara di credere in Dio, il 67 è convinto che ci sia una vita oltre la morte, il 55 va a messa almeno una volta al mese e il 47 prega una volta al giorno. Dati che hanno un riscontro comparabile in Occidente soltanto in Polonia, Irlanda, Spagna e Stati Uniti. Ma su altri punti emerge subito il divario dei comportamenti rispetto all’insegnamento della Chiesa. Ci si sposa sempre meno, e sempre meno in chiesa. Si è quadruplicato in 25 anni il numero dei divorzi e continuano a crescere le coppie di fatto. Sarebbe quindi diffusa «una forma di credenza senza appartenenza»: molti «credono in Dio “nonostante il Vaticano”», anche se pensiamo sarebbe più corretto dire «nonostante la Chiesa». Non occorre scomodare il Vaticano per ogni insegnamento ufficiale.

Con una delle «contraddizioni in termini» diffuse nel nostro Paese, ci sono poi gli «atei devoti», cioè coloro che si dichiarano non credenti, ma sono ossequienti dinanzi a una tonaca, alla gerarchia, all’autorità ecclesiastica, perché riconoscono alla Chiesa il merito di arginare la secolarizzazione delle coscienze e dei costumi, assolvendo un ruolo culturale e sociale che i laici (intesi come agenzie di senso) sembrano ormai incapaci di svolgere. Al polo opposto ci sono i credenti anticlericali, in genere della buona o alta borghesia, sempre ipercritici nei confronti della Chiesa, che vorrebbero povera e stracciona, senza chiedersi come farebbe la Chiesa a sostenere in tutto il mondo le sue innumerevoli opere di carità, spesso insostituibili, senza un apparato finanziario.

Per affrontare tale situazione, occorrono visione e schemi nuovi. Giuseppe De Rita (da sempre attento osservatore della società italiana e che gli autori definiscono «entomologo sociale») afferma che «la Chiesa deve anzitutto valorizzare se stessa come corpo sociale di base. Quella dei cattolici italiani è una realtà vitale, importante, ma che attualmente non può esprimere responsabili e referenti politici se non accettando la politica che c’è. L’Italia oggi va disperatamente cercando momenti comunitari, associativi, i più forti possibili. La gerarchia li vede, ma non li valorizza. Preferisce giocare in prima persona, a cominciare dai valori non negoziabili, e i laici stanno in panchina» (p. 22).

Molti problemi, in un mondo in così rapida evoluzione, hanno colto la Chiesa impreparata. La cultura secolarizzata infatti spesso non si presenta in forme esplicite, né con atteggiamenti aggressivi nei confronti della religione. È lo sfondo su cui tutto avviene e che ormai viene dato per scontato, diventando più insidioso dei vecchi discorsi diretti e forti contro Dio. Una volta i filosofi parlavano della morte di Dio. Oggi molte persone non si pongono nemmeno il problema di Dio. Al posto delle grandi domande di senso o sulla vita, abbiamo soltanto «una sterile mentalità edonistica e consumistica» (p. 25). Certamente esiste un ritorno al senso religioso, come dichiarato anche dai vescovi, ma esso trova espressione soprattutto in movimenti di tipo carismatico (molto forti negli Stati Uniti e in Cina, ma anche in Africa). È però un fenomeno ambivalente, che da un lato dimostra che l’uomo mantiene in sé una sete di infinito e non si accontenta di risposte solamente terrene, ma dall’altro preoccupa, perché si manifesta anche attraverso un’esperienza religiosa poco liberante, nella quale prevale spesso un bisogno di rassicurazione che non di rado sfocia nel fondamentalismo.

Evidente e denunciato da tempo anche dai Pontefici è il divario tra la morale insegnata dalla Chiesa e la condotta dei cattolici. Mentre la Chiesa, ad esempio, ritiene tuttora leciti i rapporti sessuali soltanto all’interno del matrimonio, non è certamente una novità affermare che questa norma non è certo praticata tra i giovani, anche per il sempre maggiore ritardo dell’età del matrimonio. Secondo un sondaggio realizzato nel 2011 dall’Università Cattolica e dalla Fondazione Esae su un ampio campione di giovani (cattolici?) tra i 14 e i 25 anni, «un massiccio 69 per cento dei giovani considera normale la convivenza prematrimoniale, i contrari sono il 7. Ma quando è giusto avere il primo rapporto sessuale? Il 2,9 per cento risponde “dopo il matrimonio”. Il 52 “solo quando si è innamorati”. Per il 18, infine, “qualunque momento va bene”. Inoltre, più del 44 per cento è d’accordo o “abbastanza d’accordo” nel definire il divorzio una “possibilità normale”. Tradire il proprio partner è giudicato “grave o inaccettabile” dal 70 per cento degli intervistati. I favorevoli alla contraccezione sono l’82. Per il 44,7 il ricorso alla pillola del giorno dopo non è per niente grave» (p. 81 s). Eppure, secondo l’Eurispes, il numero degli italiani che si proclamano cattolici è cresciuto dell’8 per cento rispetto a quindici anni fa, raggiungendo l’88 per cento.

Assai più severe rispetto alla diffusa morale libertaria dell’Occidente sono invece le convinzioni dei praticanti circa l’aborto. La grande maggioranza degli italiani, giovani compresi, è convinta che la vita nascente debba essere maggiormente protetta. L’82 per cento del campione Eurispes cita
to è favorevole all’aborto solo nel caso che la vita della madre sia in pericolo, mentre soltanto il 18,6 lo ritiene lecito a causa delle condizioni economiche della famiglia
. Gli autori pensano che forse la legge italiana sull’aborto potrebbe ormai venire rivista, difendendo maggiormente la vita nascente.

Padre Ugo Sartorio, francescano conventuale e direttore del Messaggero di Sant’Antonio, così descrive l’atteggiamento di molti italiani in materia di fede: «Due dita di nirvana, una spruzzata di animismo, una buccia di cattolicesimo, un pizzico di islam ed ecco servito un fresco e corroborante cocktail religioso! Forse non siamo ancora a questi estremi di contaminazione, ma il fai-da-te ha ormai preso il sopravvento, anche in casa nostra» (cit. a p. 92). Il criterio della selettività vale anche per l’immagine di Dio. Se una volta Dio era percepito come despota arcigno e lontano, di cui la Chiesa era misericordiosa e buona mediatrice, oggi è percepito come bontà assoluta, che verrebbe tradita dalla Chiesa, con il suo rigore dogmatico. Avanza quindi quella che gli inglesi chiamano la dechurchification, senza che necessariamente si vada verso una catastrofe. Anche perché l’annuncio di un disastro non provoca alcun cambiamento visibile nel modo di comportarsi, e ci si difende dall’incubo vivendo come se la minaccia non ci fosse.

Gli scenari della fede, secondo padre Sartorio, sono cambiati, specialmente in Europa e, nonostante il sincero impegno postconciliare per il rinnovamento, è subentrata una evidente stanchezza del credere, ricordata anche da Benedetto XVI, o almeno ci si rapporta alla fede adeguandosi alla mentalità odierna. La religione ha perso il vincolo dell’osservanza, per diventare sempre più oggetto di preferenza. L’individualismo del credere è un tratto culturale diffuso, per cui il percorso religioso non è più unico. Diventa selettivo, modellato su misura (à la carte) e sui propri gusti. La religione si assoggetta al criterio della preferenza, se non a quello dell’utilità, mentre quello della verità diventa secondario. La religione «non è importante che sia vera, ma piuttosto utile, cioè in grado di fornire al soggetto vitamine esistenziali per sopravvivere dentro il caos del mondo moderno. La salvezza che preoccupa […] è quella del qui e ora, che riguarda la propria integrità psico-fisica e un buon livello di soddisfazione personale. Molti dalla religione, o meglio dal mix religioso improvvisato a presidio del proprio io — spesso saccheggiando il patrimonio simbolico di più tradizioni religiose — si aspettano questo e non altro. Una salvezza nell’aldiquà più che nell’aldilà, per cui, quando si investe in un’opzione religiosa, si passa subito all’incasso. Se questo è scarso o nullo, si cambia opzione» (p. 94). Dio diventa perciò oggetto di un’esperienza che ciascuno vive adattandola alla propria identità profonda, o a quella che ritiene tale.

L’orizzonte e la ricerca di senso si sono ristretti. In realtà Dio scompare veramente non tanto quando vengono meno le pratiche religiose, ma quando le domande decisive non vengono più poste. Il discorso sulle cose ultime va riproposto in forme nuove, presentando soprattutto l’annuncio del destino di beatitudine dell’uomo. Altrimenti continuerà il fatto che «anche molti tra coloro che si proclamano cattolici non credono nell’aldilà e nella risurrezione. Un totale ko per la fede» (p. 105).

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