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La riscoperta di un Correggio vaticano

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Rodolfo Papa - pubblicato il 27/06/13
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Si tratta della cimasa del “Trittico dell’Umanità di Cristo” conservata proprio nei Musei Vaticani
Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, nella chiesa del complesso architettonico di proprietà della Confraternita di santa Maria della Misericordia a Correggio, vengono collocate alcune opere di Antonio Allegri detto il Correggio. L’opera più antica è una pala raffigurante i santi Pietro, Marta, Maria Maddalena e Leonardo eremita detta dei Quattro santi, realizzata nel 1517 per Melchiorre Fassi, ma collocata sull’altare di famiglia della chiesa solo dopo il 1538, a seguito di un testamento; oggi è conservata nel Metropolitan Museum of Art di New York. L’altra opera consiste nel cosiddetto Trittico dell’Umanità di Cristo, realizzato intorno al 1525 per l’altare maggiore della chiesa della Confraternita, per inglobare e valorizzare l’antica statua in terracotta della Madonna della Misericordia, già conservata nella medesima chiesa. In seguito, sul finire del Cinquecento, un’altra opera dell’Allegri entrò nel patrimonio iconografico della chiesa della Confraternita della Misericordia: si tratta dell’affresco detto Madonna dei limoni.

Le opere costituenti il Trittico dell’Umanità di Cristo, neanche un secolo dopo la realizzazione, vengono vendute dalla Confraternita e il Trittico viene smembrato. Nella mostra “Il Correggio a Correggio” (Palazzo dei Principi, Correggio, 4 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009) il Trittico è stato virtualmente ricostituito, e proprio da allora si sono concretizzare le ipotesi di autenticità della cimasa[1] conservata ai Musei Vaticani e finora ritenuta una copia seicentesca. Determinante, per quanto mi riguarda, sono state le ricognizioni dirette dell’opera vaticana che si sono potute effettuare fin dal 2008[2], grazie al diretto e personale interessamento del prof. Antonio Paolucci, direttore dei  Musei Vaticani. Le analisi di laboratorio, condotte da Ulderico Santamaria e  Fabio Morresi, unitamente alle ricerche di archivio effettuate da Gianluca Nicolini e Giuseppe Adani, ed alle analisi stilistiche di Margherita Fontanesi e a quelle iconologiche del sottoscritto, hanno contribuito alla certezza del risultato[3]. Tutto questo ha portato al restauro finale eseguito da  Claudio Rossi de Gasperis del Laboratorio di Restauro dei Musei Vaticani. Gli esiti di tutte queste ricerche sono stati recentemente pubblicati nel Quaderno n. 9 dei “Quaderni della Fondazione Il Correggio”, a cura di G. Adani, M. Fontanesi, G. Nicolini (Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo MI, 2011).

Ma cosa rappresenta la cimasa dipinta da Correggio? Il dipinto presenta, infatti, notevoli difficoltà iconografiche, tanto che a questa complessità è dovuta la diversità di denominazioni con cui è indicata nei documenti[4], e che ha peraltro contribuito alla difficoltà di riconoscimento dell’originale. Infatti,  in vari documenti la cimasa viene denominata e descritta in modi diversi. Nell’atto notarile di stima del valore commerciale delle opere redatto dal pittore Jacopo Borbone nel 1613 si parla di una tela raffigurante il “Signore Dio Padre”, mentre il  vescovo di Reggio Claudio Rangoni[5] in una lettera scritta nello stesso anno la chiama “Cristo” e nel libro mastro della Confraternita, in data successiva al 30 novembre 1613, la vendita dell’opera è registrata, invece, con il titolo «l’Umanità di Cristo ascendente in cielo con serafini senza ale». L’opera presenta, infatti, in un gruppo di angeli, Cristo, con il volto dalle  fattezze giovanili, il busto e la posa delle gambe rispondenti alla tradizionale iconografia di Gesù Cristo, ma con la posizione delle braccia e delle mani inconsueta; sono inoltre assenti i segni della passione. Questa iconografia non si adatta a nessuna tipologia iconografica – Cristo benedicente, Cristo in Pietà, Cristo Risorto, Cristo Giudice -.  

Per comprendere il senso e il significato dell’opera, occorre allora affrontare l’economia teologica e compositiva dell’intera ancona, comprendente il gruppo statuario della Vergine con il Bambino. A questo fine, sono importanti due confronti; il primo confronto è da istituire tra la cimasa del nostro Trittico e la tavola di Cristo Redentore fra la Vergine e san Giovanni Battista, con i santi Paolo e Catarina d’Alessandria[6], dipinta, intorno al 1520, a tempera grassa da Giulio Romano, per il Convento benedettino femminile di San Paolo a Parma, su commissione della badessa Giovanna da Parma e oggi conservata nella Galleria Nazionale di Parma. Dal confronto emerge una sicura risonanza con il dipinto di Correggio, ma emergono anche grandissime differenze relative alla figura di Cristo; infatti, l’idea di una luce avvolgente circolare e la posizione seduta sulle nubi istituiscono una sicura analogia. Le diversità riguardano, invece, i due elementi più importanti, quali la posizione delle braccia alzate e le piaghe della crocifissione sulle mani, sui piedi e sul costato, presenti solo nel dipinto di Giulio Romano.

Il secondo confronto è con il dipinto su tela raffigurante Cristo in Gloria tra i san Pietro e san Giovanni Evangelista, con i santi Maria Maddalena, Ermenegildo e Odoardo d’Inghilterra con il committente Odoardo Farnese, realizzato da Annibale Carracci intorno al 1600 circa, e conservato oggi nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze. Notiamo più assonanze con il dipinto di Giulio Romano che con quello di Correggio, giacché rileviamo che nei dipinti di Giulio Romano e di Annibale Carracci,  la presenza delle stimmate, segno della crocifissione, e le braccia alzate e allargate, ricordo della passione, indicano chiaramente che si tratta di Cristo Risorto in gloria. La tela dipinta dal Correggio, anche se mantiene una composizione affine a queste due opere, si discosta in maniera sostanziale, perché le braccia e le mani sono rappresentate in una posizione inconsueta nella tradizione iconografica della figura di Cristo, e non mostrano i segni inferti dai chiodi nel momento della crocifissione. Proprio per questo motivo, a mio avviso, Jacopo Borbone e il vescovo Rangoni chiamano in maniera diversa questa tela, perché entrambi sono attirati da particolari diversi e diversamente interpretabili: il volto è di Cristo, ma la posizione delle braccia è di Dio Padre Onnipotente.

Il Trittico, per le sue proprie caratteristiche d’impianto compositivo, e ancor più l’insieme dell’intera ancona dell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria della Misericordia, appartiene a  quel tipo di opere che tendono più all’astrazione mistico-teologica e contemplativa, che al dato narrativo. In questa prospettiva, analizziamo un classico dell’arte sacra di genere mistico-contemplativo, ovvero la Natività mistica del carmelitano fra’ Filippo Lippi, realizzata nel 1445 circa per la famiglia Medici, oggi conservata alla Gemäldegalerie di Berlino; quest’opera si propone come una meditazione sul tema dell’Incarnazione, ponendo al centro il gruppo di Maria e di Gesù Bambino, secondo l’importantissima tradizione mistica mutuata direttamente dalle Rivelazioni di santa Brigida di Svezia e, parallelamente, dal misticismo fiorentino dei domenicani beato Giovanni Dominici e sant’Antonino Pierozzi. La figura di Dio Padre e la relazione alla Natività è molto significativa per la nostra analisi.

Nella Madonna dell’Umiltà, oggi conservata nel Museo Civico di Padova, ma realizzata per la chiesa di Santa Maria dei Servi da un pittore ricordato come Maestro di Roncajette, la figura del Padre Eterno ha le mani posizionate secondo lo schema diffusissimo dell’imposizione delle mani che troviamo ininterrottamente utilizzato, fino a giungere, per esempio, nelle prime riquadrature della Volta della Cappella Sistina, dove Michelangelo tra il 1508 e il 1512 rappresenta la figura di Dio Creatore o nella analoga figura di Dio Creatore[7] nel mosaico dell’occhio della cupola della Cappella Chigi realizzata da Raffaello in Santa Maria del Popolo a Roma tra il 1513 e il 1516.

Inoltre, nella Madonna dell’Umiltà di Jacobello del Fiore, la figura di Dio Padre apre le braccia in una posizione che ricorda molto da vicino la figura della cimasa del nostro Trittico. Tale positura delle braccia e delle mani rimanda direttamente ad un modello tipologico-iconografico che è quello di Dio Creatore, come possiamo vedere per esempio nell’affresco della Creazione del mondo realizzato nel 1288 da Jacopo Torriti nella Basilica di Assisi, in cui il volto del Creatore è in realtà quello di Cristo. Si fa così riferimento all’interpretazione che numerosi Padri della Chiesa hanno dato del brano del Libro della Genesi, in cui, quando si narra della creazione dell’uomo, Dio indica se stesso con un soggetto plurale[8]. Inoltre, san Paolo nella Lettera ai Colossesi esplicita chiaramente il rapporto che intercorre tra Creazione e Redenzione in senso cristologico[9]. Comprendiamo, allora, il fondamento della rappresentazione di Cristo nel ruolo iconografico di Dio Creatore. Del resto questo aspetto iconografico è derivato da una lunghissima tradizione che, riposando sulle Scritture e sulla loro interpretazione autorevole da parte dei Padri della Chiesa e dei teologi nel corso dei secoli, ha prodotto innumerevoli immagini per il culto e la contemplazione. Un esempio chiarificatore più antico di un secolo rispetto agli affreschi assisiati di Torriti, è rintracciabile nelle miniature del Folio I del Salterio di Canterbury[10], in cui ci imbattiamo in una vera e propria confessione di fede nel Cristo Cosmico, in cui creazione e salvezza sono poste in relazione diretta nella persona di Cristo, attraverso un percorso di dodici miniature allineate e affiancate nella medesima pagina, in cui Cristo è la persona visibile della Trinità, riquadro dopo riquadro.

Un simile impianto teologico-iconografico è rappresentato, alla fine del XIV secolo, nel famosissimo affresco dell’Universo sostenuto da Dio con i simboli dei  pianeti, opera di Pietro di Pucci da Orvieto, nel Camposanto di Pisa, dove  il Cristo Cosmico letteralmente crea e regge tutto il Creato; solo il volto e le mani sono visibili, ma si intuisce facilmente che le braccia sono allargate appunto ad abbracciare e sorreggere l’intero Universo. Dunque possiamo concludere che la figura a torso nudo, rappresentata assisa sulle nubi tra gli angeli festanti, priva delle piaghe delle ferite della Passione, con le braccia aperte e le mani rivolte verso il basso in una posizione leggermente asimmetrica, immersa in una luce sfolgorante ricolma di angeli, può rappresentare non solo la figura di Cristo, ma più estesamente quella della Trinità. Infatti se le sembianze sono quelle del Figlio, gli atteggiamenti delle mani e delle braccia rimandano direttamente alla rappresentazione iconografica di Dio Creatore. Del resto in quegli stessi anni, e precisamente nel 1520, Correggio aveva dipinto la Visione di san Giovanni,  nella cupola della chiesa benedettina di San Giovanni Evangelista a Parma, che affronta la medesima questione teologica. Come ricorda Quintavalle[11], facendo riferimento a un precedente studio di Bianconi[12], l’interpretazione del soggetto intero dell’affresco mutò dall’Ascensione di Cristo al cielo tra gli apostoli appunto alla Visione di san Giovanni. Tuttavia, anche il soggetto della chiesa parmense offre una serie di problemi analoghi a quelli della tela dei Musei Vaticani, in quanto la posizione delle mani, anche qui non segnate dalle piaghe della passione, indurrebbe a cercare un fondamento scritturistico, più che nell’Apocalisse, nel Prologo del Vangelo di Giovanni, poiché la figura di Cristo pone le braccia allargate nel medesimo modo, irrituale per il modello iconografico di Cristo Risorto e Asceso al cielo, e molto più consono, come abbiamo fin qui argomentato, al tipo iconografico del Cristo Cosmico. Inoltre, il fatto che nella cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma, Correggio rappresenti Cristo con la mano destra nell’atto di indicare, allude all’atto di “chiamare le cose” e cioè  di  portare all’esistenza, con chiaro riferimento al testo della Genesi[13]. C’è anche un riferimento al modello diretto contemporaneo della già citata Volta della Cappella Sistina, realizzata da Michelangelo solo pochi anni prima, che riecheggia le infinite rappresentazioni di Dio Creatore. Correggio, dunque, non solo utilizza una modalità iconografica molto colta, ma è anche in grado di rielaborare ciò che lo ha preceduto, sia da un punto di vista formale che da un punto di vista contenutistico. Le due figure di Cristo, quella di Parma e quella dei Musei Vaticani, costituiscono un segmento chiaro del percorso elaborativo di questo grande artista, che è capace di interpretare e di “inventare” nuove soluzioni iconografiche pur nel costante rispetto della tradizione, di dire cioè cose nuove con parole antiche.

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1) In quella occasione, anche Vittorio Sgarbi concordò visitando la mostra.
2) Ricordo in particolare la ricognizione diretta dell’opera (insieme a Giuseppe Adani, Gianluca Nicolini, Nadia Stefanel, Renza Bolognesi ) avvenuta nei locali dei Musei Vaticani, il 5 agosto 2008 alla presenza della Dott.ssa Adele Breda: in quella occasione ci convincemmo dell’autenticità dell’opera. Successivamente la nostra convinzione si rafforzò grazie alle analisi di laboratorio effettuate dal Laboratorio Vaticano di Diagnostica per la Conservazione ed il Restauro, l’11 aprile 2011.

3) Il riconoscimento dell’autenticità della cimasa vaticana è stato annunciato pubblicamente nella conferenza stampa “Storia di una scoperta. Il Correggio vaticano dal Trittico di Santa Maria della Misericordia”, nella Sala delle Conferenze dei Musei Vaticani,  il 27 giugno 2011.
4) Per l’analisi dei documenti rimando al mio contributo pubblicato nel catalogo della Mostra “Il Correggio a Correggio” tenutati nel Palazzo dei Principi di Correggio dal 4 ottobre 2008 al 25 gennaio 2009: R.Papa, Lettura iconologica del Trittico, in Il Correggio a Correggio, Correggio 2008, pp. 124-143.; inoltre cfr. A.C.V.R.E., Visite pastorali, filza 2, “Rangoni Claudio” (anni 1612-1613, cc. 44v, 45v.); E. Monducci, Il Correggio. La vita e le opere nelle fonti documentarie, Cinisello Balsamo, Milano 2004.
5) Inoltre  la cimasa viene chiamata dal medesimo vescovo Claudio Rangoni come “tabula”, ma il termine latino “tabula, ae” indica semplicemente un “dipinto”, senza dare ragione del supporto.
6) Già Ciroldi pone un confronto tra le due opere e da questo ne deduce alcuni elementi che in linea generale procedono nella giusta direzione, ma le argomentazioni sono affrettate ed insufficienti. Cfr. S. Ciroldi, I dipinti di Antonio Allegri nella chiesa di Santa Maria della Misericordia di Correggio, in Atti del Convegno La ricerca storica locale a Correggio: bilanci e prospettive, vol. I, Correggio 2004, pag. 150.
7) Riguardo la figura di Dio Padre Creatore dell’Universo nella Cappella Chigi di Raffaello, vedi R. Papa, Padre della luce, in M. Dolz – R. Papa, Il Volto del Padre, Milano 2004, pp. 20-33.
8) Cfr. Gen 1, 26-28.
9) Cfr. Col 1, 13-20.
10) Salterio di Canterbury, 1180-1190 circa, MS lat. 8846, fol. 1, Bibliothèque Nazionale, Parigi.
11) Cfr. A. C. Quintavalle, Correggio, Milano 1970, scheda 49, pag. 98.
12) Cfr. P. Bianconi, Tutta la pittura del Correggio, Milano 1953.
13) Cfr. Gen 1, 3-6.

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