Dopo l’ennesimo sequestro di beni, l’azienda minaccia la chiusura. Il Governo valuta le alternative: nazionalizzazione o commissariamento
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Il cda dell’Ilva di Taranto si è dimesso sabato a seguito di un ennesimo provvedimento di sequestro da parte dei magistrati. Il gip del Tribunale di Taranto, infatti ha fatto “mettere sotto chiave dalla Guardia di Finanza il patrimonio della Riva Fire (la capogruppo che controlla anche l'Ilva) per 8 miliardi e 100 milioni di euro”. Secondo il giudice i posti di lavoro delle acciaierie sarebbero in salvo, perché “gli impianti continueranno a marciare”. Il provvedimento è finalizzato ad assicurarsi le risorse per “garantire la bonifica delle aree inquinate” (Il Sole 24 Ore, 25 maggio).
Diversa la posizione dell’azienda: il consiglio d’amministrazione dell’azienda siderurgica ha reso noto “che farà ricorso contro il sequestro”, perché “a suo avviso minaccia la capacità produttiva degli impianti, che nella città pugliese danno lavoro direttamente a 11.000 persone” (Reuters, 27 maggio). Il ministro per lo Sviluppo economico, Flavio Zanonato, auspicando il ritiro delle dimissioni, ha affermato che l’unica strada percorribile è “risanare e poi produrre acciaio, che è assolutamente necessario per la nostra economia” (AdnKronos, 26 maggio). In caso di conferma delle dimissioni del cda, le soluzioni al vaglio sono la nazionalizzazione o il commissariamento, entrambe piuttosto complicate e onerose per la collettività.
I principali commentatori politici ed economici sembrano concordi sull’inopportunità di rassegnarsi alla chiusura del polo pugliese. Dario Di Vico si chiede se i giudici abbiano “vagliato con attenzione le conseguenze del loro intervento”; secondo il vicedirettore del Corriere infatti “salterebbero 40 mila posti di lavoro tra diretti e indiretti” e “si bloccherebbe l'intera riorganizzazione della siderurgia italiana alle prese, oltre che con il rebus dell'Ilva, con i casi di Piombino e Terni” (Corriere della Sera, 27 maggio).
Non mancano le posizioni a sostegno dell’azione dei magistrati, soprattutto da quel mondo degli attivisti tarantini che per anni hanno tentato di denunciare i disastri del gruppo Riva. Alessandro Marescotti contesta i dati citati anche da Di Vico (“Se sommiamo tutti i dipendenti del Gruppo Riva nel mondo ai tremila dell’indotto di Taranto oscilliamo tra i 24 e i 25 mila”) e si chiede se “i lavoratori siano meglio tutelati lasciando ai Riva la piena libertà di spostamento dei profitti accumulati in anni e anni di produzione che i magistrati ritengono frutto di attività altamente inquinanti” (Il Fatto Quotidiano, 27 maggio).
Dal primo provvedimento di sequestro del 26 luglio 2012, la questione resta la medesima: dopo anni e anni di produzione senza regole, come garantire finalmente la salute dei cittadini e la cura dell’ambiente e allo stesso tempo non affondare l’economia dell’intera area? Come mantenere in vita il polo siderurgico garantendo che qualcuno si assuma la responsabilità di scelte economiche e finanziarie irresponsabili? Su questo aveva detto l’economista Luigino Bruni, nel dicembre scorso: “Non si possono fare 3 miliardi e mezzo di profitti” che indicherebbero un’azienda sana, “inquinando l’ambiente e ammazzando le persone”; quegli utili, così realizzati “sono il problema non la soluzione” (Tv2000, 5 dicembre 2012).
Anche la Dottrina sociale della Chiesa, inclusi i tanti richiami a una “economia pienamente umana” della Caritas in veritate, è chiara su questi temi. Mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, ha infatti ricordato alla sua comunità che “crediamo che, ad immagine della Trinità, siamo chiamati a vivere e a condividere insieme il mondo, il creato, come dono di Dio e luogo dove essere famiglia di uomini”. E che pertanto “nessuno ha il diritto di inquinare e di distruggere la nostra terra, il nostro cielo e il nostro mare. Ugualmente fa parte del diritto alla vita il diritto a un lavoro degno”.