D’Agostino: mancano le ragioni sociali di un riconoscimento
La decisione dell’Assemblea nazionale francese a proposito del “mariage pour tous” apre le porte a un diritto riconosciuto dall’ordinamento al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma è proprio così? Ne abbiamo parlato con Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani, e docente di filosofia del diritto alla Lumsa e alla Pontificia Università lateranense.
Il matrimonio tra persone dello stesso sesso può diventare un nuovo diritto?
D’Agostino: La risposta non è semplice. Per un giurista positivista un diritto esiste se stabilito dalla legge; per cui se lo Stato francese riconosce il matrimonio tra persone dello stesso sesso, riconosce tale diritto. Tuttavia se attribuiamo al diritto un significato più ampio, rispettando l’oggettività di fenomeni e relazioni interpersonali, ne consegue che il matrimonio ha la funzione di fondare la famiglia come susseguirsi di generazioni, cioè è volto alla generatività. L’unione gay, al contrario, è sterile e quindi esclude la funzione generazionale del matrimonio.
Si dice spesso che i cattolici sono contrari al matrimonio tra persone dello stesso sesso perché lo ritengono un’offesa alla religione cristiana: è così?
D’Agostino: Il matrimonio eterosessuale non è un istituto tipicamente cristiano. È presente in tutte le culture e in tutte le epoche. La dottrina cristiana puntella un modello naturale ma non lo fonda. Ciò che aggiunge all’istituto del matrimonio è la dignità sacramentale ma riconoscerlo come sacramento è questione che riguarda i credenti. Infatti i cristiani hanno sempre riconosciuto anche la validità del matrimonio non sacramentale, che ha la stessa funzione sociale di garantire l’ordine delle generazioni.
Lei ha affermato che, in realtà, nel matrimonio tra persone dello stesso sesso, la posta in gioco è di tipo simbolico: perché?
D’Agostino: Perché il matrimonio gay non risponde a delle esigenze sociali: quali sono? L’unica ragione sociale del matrimonio è la generazione dei figli. I partner di una coppia gay ritengono che alla loro felicità occorra un’unione formale, ma si tratta di una esigenza soggettiva e simbolica. Tali esigenze possono trovare ascolto dall’ordinamento solo se dietro c’è anche una ragione sociale. A titolo di esempio si può pensare al laureato che in Italia esiga di vantare il titolo di “dottore”: qui si può riscontrare una ragione sociale perché il titolo della laurea ha un valore legale e serve ai cittadini affinché possano affidarsi con sicurezza ai servizi di un professionista. Lo stesso non può dirsi per chi esigesse il riconoscimento del titolo di “pittore”: l’arte non ha bisogno di garanzie perché è libera espressione.
Il riconoscimento del valore legale del matrimonio non potrebbe costituire una forma di tutela per i partner di una unione gay?
D’Agostino: I membri di una coppia gay hanno già a disposizione diversi strumenti di tutela: possono nominarsi reciprocamente eredi testamentari, istituire polizze sulla vita a favore del partner, intestare contratti di affitto ad entrambi. Molte situazioni della vita quotidiana sono risolte dal diritto comune.
Perché allora in 10 paesi del mondo – tra cui diversi europei – il matrimonio gay è stato riconosciuto?
D’Agostino: Il cuore del problema è che l’istituto del matrimonio è in crisi perché in Occidente è in crisi la generatività: le persone non vogliono fare figli. In Europa c’è stato un crollo demografico plateale: il senso giuridico sociale del matrimonio viene confuso con un vincolo simbolico. L’individualismo sfrenato che caratterizza l’Occidente secolarizzato fa perdere consapevolezza dell’importanza dell’istituto familiare. In questo modo si sceglie la convivenza senza figli oppure piccole quote di omosessuali – non tutti – si innamorano dell’idea del matrimonio. Ma la convivenza coniugale che non contempla un futuro con dei figli non è autentica allo stesso modo in cui non lo è una unione gay che vuole assumere carattere coniugale. Ciò che è in gioco, in ogni caso, è l’autenticità.